domenica 26 dicembre 2010

una possibile colonna sonora delle feste

Ecco il sottofondo del mio Natale:
- JAMES BROWN: Santa Claus go straight to the ghetto
- THE FLAMING LIPS: Christmas at the zoo
- THE RAMONES: Merry Christmas (I don't wanna fight tonight)
- BRUCE SPRINGSTEEN: Christmas (Baby please come home)
- ELVIS PRESLEY: Blue Christmas
- EELS: Everything is gonna be cool this Christmas
- JOHNNY CASH: I heard the bells on Christmas day
- BELLE AND SEBASTIAN: Are you coming over for Christmas?
- THE WHITE STRIPES: Candy Cane children
- LOW: Just like Christmas
- JULIAN CASABLANCAS: I wish it was Christmas today
- THE YEAH YEAH YEAHS: All I want for Christmas
- THE RAVEONETTES: Christmas song
- BEACH BOYS: Little Saint Nick
- JONI MITCHELL: River
- THE BRIAN SETZER ORCHESTRA: Jingle bells
e naturalmente, per finire, due classici del Natale:
- THE POGUES & KIRSTY MacCOLL: Fairytale of New York
- ELIO E LE STORIE TESE: Christmas with yours

Auguri a tutti!

mercoledì 22 dicembre 2010

BASTIEN VIVÈS: proprio NEI MIEI OCCHI

Avevo già scritto del giovanissimo autore francese Bastien Vivès e del suo precedente graphic novel qui. Il suo "Il gusto del cloro" mi era piaciuto davvero tanto. I tipi di Black Velvet hanno appena pubblicato in Italia anche "Nei miei occhi" e beh, a mio parere è un altro gran bel libro.
Nemmeno in questo caso è la storia ad essere l'oggetto principale della mia ammirazione: se nel primo libro si trattava della "semplice" infatuazione di un ragazzo per una ragazza, in questo caso Vivès ci descrive la "semplice" storia di un incontro, di un corteggiamento e di una relazione al suo inizio.
Quello che non è usuale è il modo che il nostro francesino ha di raccontare vicende tanto normali, il suo punto di vista: se ne "Il gusto del cloro" la vera protagonista era la piscina come teatro delle vicende e come culla per i pensieri del protagonista, il titolo non inganna nemmeno nel caso de "Nei miei occhi".
Quelli del titolo sono infatti proprio lo sguardo narrante del "lui" della storia, che non si vede mai e non si sente mai parlare. Ciò che si vede e si sente è ciò che vede e sente il nostro protagonista, nè più nè meno: siamo letteralmente lui, dall'inizio alla fine del romanzo, e con lui viviamo la storia. Alcuni ci si immedesimeranno, altri naturalmente non si riconosceranno nel suo modo di fare e di condurre la nascente relazione con la bellissima rossa che ci sta di fronte: io, per esempio, non l'ho fatto.
Ma ero comunque dentro  il personaggio, e man mano che la storia proseguiva era come se fossi io a viverla, come se il corpo, gli occhi fossero davvero i miei. E quando non ero d'accordo con quello che mi succedeva, quando avrei voluto portare la storia da un'altra parte, soffrivo a non poterlo fare, come fosse proprio la mia storia e qualcuno stesse portando il mio corpo e le mie azioni in luoghi non voluti.
É davvero bravo Bastien Vivès. Anche a disegnare oltre che a raccontare, e stavolta sceglie una tecnica e dei colori totalmente diversi da quelli del precedente romanzo.
 In più è amico di Gipi, e questo è un altro punto a suo favore.
Tenetelo d'occhio sul suo blog (in francese, ovviamente).

martedì 7 dicembre 2010

Il più bel concerto che NON ho visto della mia vita: EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN @ Estragon, Bologna, 13-14/11/2010

Nel mio primo periodo di frenetica passione musicale (primi anni 90) e onnivoro bisogno di scoprire nuovi orizzonti culturali, ero molto affascinato dal rumore più che dalla melodia, tardivo moto di ribellione tardo-adolescenziale verso il mio mondo di allora (un'università ingessata che non mi piaceva, amici con cui faticavo a trovarmi, e soprattutto verso me stesso e la mia perenne immagine da innocuo bravo ragazzo). Avevo scoperto da poco i Velvet Underground che cambiarono la mia percezione del mondo, letteralmente, e via via i vari The Jesus and Mary Chain, Suicide, Sonic Youth e compagnia. Avevo già capito dal Tom Waits di "Swordfishtrombones" che era possibile utilizzare oggetti di vario tipo come strumenti di percussione, che poi era quello che facevo io in casa da sempre: da sempre mi affascinava scoprire la musicalità degli oggetti, persino delle varie parti del corpo, che se percossi nella giusta maniera potevano produrre effetti sonori decisamente interessanti.
Con questo fresco background e questa predisposizione personale misi il mio primo cd degli Einstürzende Neubauten nel lettore e beh, fu tutta un'altra cosa. Come per molti, il mio primo contatto con i "nuovi edifici che crollano" avvenne attraverso i Bad Seeds di Nick Cave, il cui chitarrista storico era tale Blixa Bargeld, che scoprii essere il leader di questa band berlinese di musica cosiddetta "industriale" che era solita utilizzare come strumenti gli oggetti più disparati (trapani, seghe circolari, bidoni di plastica, tubi metallici, vetri,..) ricavandone suoni potentissimi e affascinanti nella loro cacofonia. Ricordo che "Tabula Rasa" divenne uno dei cd da me più ascoltati e passavo il tempo a leggere il libretto con gli strumenti e a cercare di riconoscere tra quelle note i compressori, i bidoni di plastica, i tubi metallici, persino le turbine di aereo! Qualche anno fa divenni anche supporter del gruppo attraverso il loro sito internet, pagando una quota che permettesse loro di sperimentare, costruire (o distruggere) i propri strumenti, registrare in autonomia. Via via, col tempo e la maturità, la melodia ha fatto capolino nelle canzoni degli EN, e persino il silenzio (l'aspirazione di una sigaretta, le foglie, una matita su un foglio di carta, le voci sussurrate) si è fatto musica. Un fascino incredibile che resta intatto, e la consapevolezza che virtualmente tutto può essere suono, melodia, canzone.
Ma la piena consapevolezza di quanto grande sia il gruppo tedesco, la vera scoperta ("ecco cos'era quel suono!"), la vera quadratura del cerchio si può avere solo vedendo suonare gli EN dal vivo. Mi è capitato due volte, a Milano nel 2004 e a Bologna nel 2008, entrambe le volte è stata un'esperienza unica. Quest'anno il gruppo compie 30 anni, e ha organizzato un breve tour autocelebrativo in poche città europee, quelle a loro più care. Ogni tappa era organizzata in due serate: un canonico concerto la prima sera, mentre la seconda data prevedeva un set più breve in cui il gruppo al completo proponeva canzoni mai suonate live o comunque pezzi meno conosciuti, seguito da un documentario sul gruppo e altre performances dei singoli componenti (che ora, ricordiamolo, oltre a Blixa Bargeld sono N.U. Unruh, Alexander Hacke, Rudolf Moser, Jochen Arbeit e - solo dal vivo - Ash Wednesday).
Niente tappa spagnola, mentre quella italiana è stata il mese scorso all'Estragon di Bologna in date per me impossibili: chi ci è stato mi ha raccontato meraviglie, neanche a dirlo. Spero solo non fosse un epitaffio, che gli Einsturzende Neubauten si dedichino a nuovi progetti e tornino presto in sala di registrazione. Non riesco a pensare alla mia vita senza qualcuno che, come loro, ne trasformi il rumore di fondo in musica.

Le scalette delle due serate bolognesi (e molti video) possono essere viste qui e quiqui si trova invece l'intero concerto di Parigi in streaming.

domenica 21 novembre 2010

Come iniziai ad amare la Marvel: le collane GIGANTI dell'Editoriale Corno

Ho iniziato a leggere a tre anni, grazie a papà e mamma e alla lavagna magnetica con le lettere. Prima lettura, insegna della farmacia a parte, naturalmente Topolino. Da bambino un po' più grandicello andavo da Piero, l'edicolante vicino di negozio della nonna a Levanto, e facevo man bassa di fumetti estivi. Qualcuno ricorderà quelle raccolte con la costina colorata di rosso: per un lettore onnivoro alle prime armi come me erano una pacchia, vista la mole di storie che contenevano. Non essendo ancora preda del demone del collezionismo non consideravo un problema le pagine un po' rovinate, il refilo spesso fatto un po' alla buona e quel colore sul bordo esterno delle pagine. Insomma, fu da Piero che entrai in contatto con mondi magnifici e che davvero avrebbero contribuito fortemente a formare i miei gusti in materia fumettistica e - perchè no - letteraria, e credo in qualche misura anche il mio carattere: Alan Ford e il Gruppo TNT innanzi tutto, e l'universo Marvel. Tutti quei personaggi erano pubblicati da una casa editrice milanese, l'Editoriale Corno; Alan Ford era scritto da un tale Max Bunker, e le collane di supereroi erano supervisionate da un certo Luciano Secchi. Di sicuro all'epoca non potevo sospettare che si trattasse della stessa persona. 
Dei personaggi Marvel adoravo le collane giganti,  che erano raccolte (scoprii dopo) in grande formato di storie dell'epoca d'oro degli anni 60 e 70. "L'Uomo Ragno Gigante" era il mio preferito, con le storie di Stan Lee e Roy Thomas e i disegni insuperati di John Romita (non ancora Senior, in quanto il Junior all'epoca sarà stato un bimbo in fasce) e Gil Kane. Mary Jane, il Coffee Bean, quella lagna di zia May, Kingpin che pestava duro con quelle manone e ancora non si era dedicato a rovinare la vita a Devil, Doc Ock, l'Avvoltoio e gli altri cattivoni storici, e soprattutto la morte dell'amata Gwen per mano di Goblin. Dramma, ma anche molta ironia. L'Uomo Ragno aveva il costume con gli occhi gialli e non bianchi, e rimase così per tutta l'epoca delle pubblicazioni Corno. Anche al primo Devil cambiarono il colore del costume, da giallo a rosso; le storie che amavo su "Devil Gigante" erano quelle disegnate da Gene Colan con quel tratto sporco e oscuro e quei corpi enormi, apparentemente sgraziati. A ripensarle oggi (e a ripensare quanto serio s'è fatto Matt Murdock negli ultimi anni) era tutto piuttosto assurdo, con quei nemici ridicoli tipo Stiltman o il Gladiatore; in compenso c'era la Vedova Nera, con poteri che non ho mai capito quali fossero, ma anche con quella chioma rossa e quel costume nero attillato con le cartuccere ai polsi che la rendevano sexy anche agli occhi di un bambino di 7 anni.

C'era poi la meraviglia dei personaggi disegnati da Jack Kirby. Su "I Fantastici Quattro Gigante" c'erano le storie mitiche degli anni 60, con esplorazioni intergalattiche, gli Inumani, Galactus e Silver Surfer. Quei disegni imponenti e quei macchinari enormi, inverosimili ma perfettamente credibili in quel contesto. I disegni del Re ogni tanto me li ritrovavo anche su "Vendicatori Gigante" e su "Capitan America Gigante", in cui c'erano personaggi che amavo meno e che avrei riscoperto solo decenni dopo.
Nei Vendicatori militavano Giant Man e Wasp, però, e Occhio di Falco e soprattutto Visione: quei personaggi minori mi intrigavano molto di più di Iron Man - mai sopportato, lui e quel vestito di latta inverosimile persino in un mondo in cui si vola e si passa attraverso i muri - e Thor, un po' con la puzza sotto il naso per i miei gusti con quelle arie da Dio che si dava. Anche se - ammettiamolo - la storia del martello era piuttosto intrigante. 
In quegli anni non andavo troppo per il sottile, a dirla tutta facevo anche un bel po' di confusione con i personaggi e non avevo la minima idea di continuity (meccanismo fondamentale nelle serie Marvel e con l'andare degli anni anche molto perverso). Ma leggevo di tutto, e in quel formato grande si trovavano raccolte anche di altri personaggi che capivo poco ma che leggevo comunque. Se erano "giganti" anche loro dovevano avere qualcosa in comune con quegli altri, no? E allora sotto con "Gli Eterni" (ancora Kirby all'ennesima potenza) e persino "Shang-Chi Maestro del kung-fu", in seguito dimenticato forse giustamente, chissà. "Kamandi" no, mi sa che era in formato più piccolo. A pensarci ora, mancavano gli X-Men, ma il loro clamoroso successo arrivò molto dopo e le loro prime storie erano poca cosa persino per uno che leggeva di tutto come me. Ricordo però che Ciclope e l'Uomo Ghiaccio mi intrigavano non poco, avevano un fascino tutto particolare che sarebbe sfociato in amore solo un decennio più tardi quando riscoprii i fumetti Marvel da adolescente, dopo qualche anno di interruzione...
L'Editoriale Corno era ormai fallita da tempo, i personaggi passati in mani diverse e appasionate, quelle della Star Comics. La magia restava, ma per quanto belle fossero le storie - migliori, in molti casi - e per quanto fossi entusiasta di ritrovare quei vecchi amici con cui ero cresciuto, l'incanto della scoperta era andato per sempre. Ormai viaggiavo verso l'età adulta, e i personaggi pure: autori importanti (Miller, Alan Moore, Claremont, Byrne), una casa editrice più organizzata, tutte quelle note di copertina che spiegavano di tutto e di più. L'amore per la Marvel - e per Alan Ford - si stava trasformando in amore per il fumetto, e avrebbe trasformato me in pericoloso collezionista che ripudiava le raccolte estive con la costina colorata...
Senza che me ne rendessi conto, però, mi mancava qualcosa. Mi mancava la pagina della posta in cui c'era sempre qualcuno che domandava se fosse più forte Hulk o la Cosa, mi mancavano gli adesivi "de-luxe" (quante volte da bambino mi sono chiesto cosa volesse dire!), mi mancavano persino le pubblicità della Big Babol con Daniela Goggi e quella della Girella o del Cono Atomic. Persino Piero aveva ormai venduto l'edicola, al mare, al suo posto un negozio di abbigliamento.
Era la spensieratezza dell'infanzia, che non c'era più.



venerdì 12 novembre 2010

il mio cantante preferito di tutti i tempi: ELLIOTT SMITH

In questi giorni di malattia passati a casa, in cui per la verità ho lavorato di più di quando sono in ufficio, ho approfittato per scaricare un po' di roba dalla rete. Qualche disco, un paio di film, un paio di documentari (uno su Giancarlo Siani, dopo aver visto finalmente "Fortapasc" di Marco Risi, e l'altro sul moglie e figlio "segretati" da Mussolini, dopo aver visto "Vincere" di Bellocchio), e qualche concerto video. Tra gli altri, un live acustico di Elliott Smith del 1999 all'Olympia di Washington.
Ho molto amato Elliott Smith e le sue canzoni tristi, malinconiche, spesso disperate. Ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore di appassionato di musica e anche nel mio cuore e basta, come fanno molte persone dalla storia travagliata e problematica alla cui storia mi sono appassionato: per restare in ambito musicale, Syd Barrett, Mark Eitzel, e altri loser più o meno famosi.
Di sicuro Elliott Smith non è mai stato un vincente, nè ha mai voluto esserlo: una vita ai margini dello showbiz, grunge all'ombra del grunge con la sua band (gli Heatmiser), autore di delicate canzoni acustiche quando andava di moda pestare forte sugli strumenti, sempre in punta di piedi suonando quello che piaceva a lui. Ossia canzoni sulla solitudine, sull'abbandono, sull'alcool e le droghe, sul suicidio: tutte situazioni che aveva provato sulla sua pelle o che tragicamente proverà in futuro. Testi crudi e poetici e melodie toccanti e molto personali, che si evolvono dallo stile quasi amatoriale dei primi album fino allo stile più ricco e agli arrangiamenti più elaborati degli ultimi lavori. In mezzo, una candidatura all'Oscar e una improvvisa visibilità che invece di dar luce alla sua carriera e alla sua vita lo fanno piombare in una depressione da cui non uscirà più. Un disagio verso i riflettori, una diffidenza verso il successo per molti versi paragonabili a quelle di Kurt Kobain, e destinate a risolversi con la stessa, tragica, fine.
Le performances dal vivo di Elliott Smith sono lo specchio fedele di questa evoluzione. Se ne trovano molte in rete, in video (su youtube naturalmente: si veda ad esempio la sua timida performance alla notte degli Oscar prima di Céline Dion, tutto vestito di bianco con gli occhi bassi a suonare quella magnifica "Miss Misery" candidata per "Good Will Hunting", e a domandarsi "che ci faccio io qui?" - e noi con lui) e in audio. Molti concerti possono essere scaricati gratuitamente qui: ce ne sono di tutte le sue fasi della sua carriera, dai concerti acustici degli esordi a quelli con band elettrica del periodo "Figure of 8", e ancora le performances tristi e sfasate degli ultimi mesi prima della morte, in cui il miglior modo per sfuggire alla fama e a quel senso di inadeguatezza che ne derivava era parso di nuovo l'alcool. Scaricateli, e ascoltateli, ne vale la pena: tutto è emozione quelle tracce, le pause e le chiacchiere col pubblico quasi più che le canzoni stesse.
Sono passati già 7 anni dalla sua morte, e ricordo benissimo il mio stato d'animo quando lessi la notizia: una grande tristezza, e un senso di impotenza di fronte all'ingiustizia della vita. Oggi leggo che è uscita una raccolta di sue canzoni, e spero davvero che qualcuno la compri e che si innamori di quelle melodie come era capitato a me.

Well, I don't know where I'll go now
And I don't really care who follows me there
But I'll burn every bridge that I cross
And find some beautiful place to get lost
And find some beautiful place to get lost
("Let's get lost", 2003)

domenica 7 novembre 2010

magliette/2

il mio manga preferito di tutti i tempi: JIRO TANIGUCHI/AL TEMPO DI PAPÀ

Non ho mai amato particolarmente il fumetto giapponese. O forse l'ho solo evitato, ne sono stato alla larga per evitare di essere risucchiato anche in quel mondo sterminato, come se non ne avessi già abbastanza di tutto il resto: supereroi, graphic novels, bonellismi e maxbunkerismi vari. Dove avrei trovato il tempo di leggerli? e soprattutto: dove minchia li avrei messi?? Meglio autoconvincersi che non mi piacesse, con tutti quegli occhi strani e quei retini e quei segni cinetici. Praticamente lo stesso meccanismo di autoconservazione che ho adottato con la Nutella e con i videogiochi: sono già abbastanza panzone e chiuso in me stesso da non potermi permettere altre cause di deriva fisica e psichica, quindi via col falsissimo "non mi piace". In effetti credo di aver letto solo qualcosa di Akira, senza grande entusiasmo (ma in quel caso influisce anche il mio scarso feeling con certo tipo di fantascienza) e "La storia dei tre Adolf" di Osamu Tezuka (bellissimo, invece).
Almeno finchè non mi sono imbattuto in Jiro Taniguchi, "il più europeo dei mangaka giapponesi" come viene definito, e della sua opera mi sono letteralmente innamorato. L'ultimo della sua lunga serie di romanzi a fumetti che ho letto è "Al tempo di papà", recentemente ristampato da Panini Comics nella nuova collana "Taniguchi collection" che - appunto - ripropone l'opera dell'autore.
Come in molte sue opere, anche in questi 12 capitoli che compongono il racconto l'autore ci presenta storie semplici e quotidiane di persone, più che personaggi, in cui tutti ci possiamo identificare nonostante la distanza geografica e culturale che ci separa del paese del Sol Levante. Non starò a riassumere la trama e le vicende di Youichi Yamashita e della sua famiglia, della sua vicenda di conflitti interiori con un padre che non ha mai capito e che riscopre davvero solo dopo la morte, nè vi racconterò i dettagli del suo rientro nel paese natale di Tottori (lo stesso in cui è nato l'autore stesso) e dei molti feedback che riempiono il romanzo e attraverso cui l'intera saga familiare ci viene svelata. Quelli si possono trovare agevolmente in rete insieme a molte recensioni; questa è una storia di sentimenti ed emozioni che a me non va di raccontare a parole. É una vicenda di silenzi e di legami intangibili, in cui il protagonista rimette poco a poco insieme i pezzi di una vita vissuta in gran parte scappando da una famiglia spezzata e non capita, e da un paese natale che rappresentava il dolore di questa perdita. Una storia che, come molte grandi storie, mi ha fatto pensare profondamente a me stesso. Alla fine anch'io ho passato gran parte dei miei anni in fuga da qualcosa o qualcuno, incapace di affrontare tante delle responsabilità che la vita - e i rapporti con le persone che ho tanto amato - mi hanno piazzato davanti. Mi è capitato di covare grandi e piccoli rancori, che è un modo molto ma molto semplice per evitare il confronto e soprattutto per non ammettere a sé stessi le proprie mancanze e le proprie colpe, per scappare e non affrontare le cose complicate da affrontare. Non ho davvero capito molte delle persone a me vicine, non ho capito il vero motivo di certi comportamenti e di certe debolezze, assumendo atteggiamenti troppo rigidi verso altri e troppo indulgenti verso me stesso. E ho creato le condizioni per tanti piccoli e grandi silenzi, per tante piccole e grandi fughe.
Ora sono stufo di silenzio e lontananza, e mi pare di capire finalmente che di colpe ne ho avute anch'io, eccome, e che soprattutto non è un dramma averne: è la vita che ci porta a fare cazzate e prendere abbagli. Ma la stessa vita ci da l'opportunità di capire e di rimetterci in piedi se davvero lo vogliamo, e al diavolo i sensi di colpa.
Purtroppo per molti dei danni fatti (uno in particolare, il più grosso, per quanto mi riguarda) non c'è modo di rimediare come vorrei, ma spero comunque di avere l'opportunità di riprendere un dialogo, un giorno. Per il resto, le emozioni sono quelle che ci fanno sentire vivi, e le emozioni vengono anche e soprattutto dalle persone che amiamo e che ci amano, e persino dai luoghi (fisici, spirituali) che queste rappresentano. Averne paura ci rende aridi, e scoprire "quello che avrebbe dovuto essere" solo quando è troppo tardi, come capita a You nel libro di Taniguchi (perchè è di quello che avrei voluto parlare, egocentrico che non sono altro), è un gran peccato. Grazie Jiro per avermi dato una conferma di questo, e per avermi insegnato cose fondamentali della vita solo e semplicemente scrivendo e disegnando uno splendido romanzo.

domenica 31 ottobre 2010

il concerto più bello di tutti i tempi: TINDERSTICKS @ Sala Apolo, Barcelona, 30/10/2010

Ho sempre amato i Tindersticks alla follia. Quella musica malinconica e potente, con forti accenti cinematografici; quel violino, quell'Hammond, quella voce. Li ho sempre trovati unici e insuperati.
Li ho visti in concerto innumerevoli volte, fin dalla primavera del 1994 al glorioso Bloom di Mezzago per la tournée del primo meraviglioso album. Poi ai Magazzini Generali di Milano nel '97 per l'altrettanto magnifico secondo disco, riuscendo anche a fare due chiacchiere al bar con 5 dei 6 componenti del gruppo (unico assente: Stuart Staples). E ancora nel '99, e Stuart da solo quando il gruppo pareva sciolto, a fine novembre 2006, appena tornato a Milano nel periodo più brutto e confuso della mia vita. Ricordo bene quella serata e le chiacchierate con l'amico Andre.
Qui a Barcellona li ho visti nel 2009, a febbraio, appena arrivato in città, primo concerto in terra catalana. Era anche il ritorno del gruppo inglese dopo 5 anni, ma con 3 dei 6 componenti originali che non c'erano più: erano altri Tindersticks, e nonostante il concerto all'Auditori mi fosse piaciuto molto, come del resto il loro album "The Hungry Saw", mancava qualcosa. Come mancava qualcosa da tempo anche nei dischi: sempre belli, con grandissime canzoni, ma qualcosa sembrava si fosse rotto rispetto ai primi tre capolavori. L'ultimo "Falling Down a Mountain", uscito all'inizio del 2010, mi è parso un gradino sotto l'album precedente, con più voglia di osare forse, ma in generale meno teso e più autocompiacente. Per questo dal concerto di stasera non mi aspettavo moltissimo: pensavo di vedere un gruppo sempre più che valido dal vivo, ma senza sorprese, senza quella tensione tipica dei primi lavori e più orientato verso  ballate morbide e acustiche che verso il peculiare rock degli inizi. Anche il doppio "Live in London" di quest'anno, venduto come tradizione solo sul sito del gruppo, pareva confermare questa tendenza.
Come mi sbagliavo.
E' stata forse uno delle loro migliori performance, e devo dire che mi è parso che i nuovi innesti (David Kitt alla chitarra e strumenti vari, anche titolare di una discreta carriera solistica che si è anche esibito in solitario in apertura di serata, e poi Dan McKinna al basso, Earl Harvin alla batteria e Andy Nice a violoncello e sax) abbiano raggiunto con il nucleo storico del gruppo un'intesa perfetta e abbiano trasmesso ai tre "vecchi" (Staples, David Boulter e Neil Frazer) un entusiasmo che mancava da tempo. Anche gli arrangiamenti hanno recuperato armonia e persino parecchio salutare rumore, che latitava ultimamente rischiando di far scivolare le canzoni verso una zona musicale pericolosamente molle. La scaletta ha riflesso questa tendenza, e le nuove canzoni si sono amalgamate benissimo con canzoni recenti e storici recuperi, alcuni davvero inaspettati ("Raindrops", "A Night In", "Marbles", "City Sickness", "Tiny Tears", persino "Tyed" e una sinuosa "Before you close your eyes", oltre a una spettacolare "Bathtime" tra le altre, tutte rese in modo splendido). Ho persino sentito poco la mancanza del fondamentale violino di Dickon Hinchcliffe, non solo per la presenza del violoncello quanto soprattutto per i nuovi arrangiamenti.
Senz'altro suonare finalmente in un club ha giovato: il pubblico entusiasta li ha trascinati con applausi senza fine fino alle quasi due ore di durata del concerto. Si sono visti addirittura sorrisi e sguardi scherzosi sul palco, e chi ha assistito ai vecchi concerti sa quanto questo sia sempre stata una vera rarità. Stuart, soprattutto, sempre con la chitarra a tracolla e vero leader del gruppo, molto più coinvolto e disteso di un tempo e persino trascinatore in canzoni nuove come "Harmony around my table" che ha chiuso il primo set tra le ovazioni del pubblico. Cose che in un posto dall'acustica perfetta ma piuttosto asettico e distante con l'Auditori, o con il pubblico distratto dei festival, non sarebbe successo.
I Tindersticks sono tornati dunque, non perdeteveli se capitano dalle vostre parti. Fidatevi, non temono rivali. In questo periodo si fa un gran parlare di gruppi come i National, che vanno molto di moda e per carità, sono anche bravi. Ma qui siamo su un altro livello: stiamo parlando dell'originale, non di una pallida copia.

Setlist (dal forum ufficiale):
La locandina che campeggia nel mio salotto
Falling down a mountain
- Keep you beautiful
- Marbles
- Sometimes it hurts
- She rode me down
- Peanuts
- Raindrops
- Bathtime
- Marseille sunshine
- The other side of the world
- Tyed
- Black smoke
- Factory girls
- A night in
- Harmony around my table

Bis1:
- Before you close your eyes
- City sickness

Bis 2:
- All the love
- Tiny tears

mercoledì 27 ottobre 2010

meccanismi

I perversi meccanismi mentali di certa gente (nel caso specifico e senza odiose generalizzazioni: miei).
In libreria. vedo e arraffo senza pensarci un attimo il volume delle storie di Superman scritte da Alan Moore. Nello stesso istante affermo: detesto Superman.
Comprensibilmente, la mia amica Alessia, compagna di scorribande in libreria, non capisce. Se non ti piace Superman perchè compri un libro di Superman?
Povera ingenua.
Provo a spiegarle che non è un libro di Superman, ma il libro delle storie di S. scritte da Moore. L'apprezzamentto per Alan Moore - le dico - vincerà sempre sull'antipatia per l'Uomo d'Acciaio.
In altre parole, è un po' come il famoso gioco "carta-forbici-sasso"... In ambito supereroistico moderno potrebbe essere parafrasato come: il personaggio oscura l'autore, l'autore la spunta sulla casa editrice, la casa editrice controlla il personaggio. Sempre che la casa editrice sia mamma Marvel; in caso (questo) l'editrice sia invece la Distinta Concorrenza, Alan Moore stravince su tutto. Ma tu vaglielo a spiegare ad Alessia.

PS. per una versione nerd del "carta-forbici-sasso" date un'occhiata qui.

domenica 17 ottobre 2010

il mio disco preferito di tutti i tempi: NEIL YOUNG/LE NOISE

Ora. C'é quest'uomo, un canadese di 65 anni. Scrive canzoni, se le suona e se le canta, da più di 40 anni. Ha fatto parte di gruppi che hanno fatto la storia (Buffalo Springfield, Crosby/Stills/Nash/Young), ha fatto dischi da solo e con i Crazy Horse alternando generi musicali diversi, dal country al rock più potente. Ha pubblicato canzoni e album epocali. Ha avuto il suo decennio di "bassa" (gli insopportabili anni 80, manco a dirlo) anche a causa di problemi familiari, e poi si é ripreso alla grande quando tutti ormai lo davano per bollito, ricominciando a macinare grandi canzoni e grandi album e diventando un punto di riferimento riconosciuto da icone del rock giovanile e alternativo come Pearl Jam, Sonic Youth, Pixies. Ha sempre fatto quello che ha voluto, artisticamente parlando, spesso e volentieri spiazzando fans e collaboratori con scelte discutibili e incomprensibili, magari preferendo uscire con dischi obiettivamente brutti e lasciando inedite canzoni stupende che altri non si sognerebbero mai di scrivere. Ha avuto un aneurisma cerebrale a cui ha reagito pubblicando uno dei suoi dischi più belli, e ha sofferto dolorose perdite tra amici e musicisti a lui molto vicini (l'ultimo ad andarsene, Ben Keith pochi mesi fa).
Oggi, appunto, Neil Young potrebbe godersi la vita dando concerti zeppi di greatest hits e godendosi la vita nel suo ranch, e invece se ne esce con un altro capolavoro storto e difficile: questo "Le Noise", trentaquattresimo album in studio della sua carriera, il cui titolo forse gioca sul termine inglese per "rumore" e il nome del produttore, Daniel Lanois.
Avevo sentito le nuove canzoni in anteprima qualche mese fa, nella registrazione di uno dei concerti del tour solitario che Young ha portato nei teatri americani in primavera: mi erano piaciuti molto e cervavo di immaginare come potessero essere nella loro versione definitiva, riarrangiati per il gruppo in tile "Harvest" o piuttosto in stile "Weld".
Invece no: c'é solo Neil in questo disco, lui con la sua chitarra a volte acustica e più spesso elettrica, ci sono molto feedback e pochi ritornelli memorabili. Ci sono i Crazy Horse pur senza esserci davvero. Sembrano quasi dei demo, queste 8 canzoni, in equilibrio tra un senso di incompiutezza e invece la sensazione che aggiungere anche solo una nota o peggio altri strumenti a queste perle grezze ne avrebbe turbato l'equilibrio. "Le Noise" va ascoltato più volte dall'inizio alla fine, bisogna entrarci dentro, farsi circondare e pervadere da quelle note e da quel canto che mai come stavolta somiglia a un lamento. É difficile, lo so, ma ci sono poche cose che valgano la pena in questi tempi aridi e freddi come immergersi nel mondo del vecchiaccio terribile Neil Young. Sentire "Hitchiker" (una delle molte canzoni finora perdute, risalente al '92) e leggerne il testo per credere.


L'album nella sua interezza può essere visto qui. Dopo averlo fatto, naturalmente, andate a comprarlo. Sono ancora uno di quelli che crede che i dischi (continuo a chiamarli così) vadano comprati e posseduti, e toccati, e aperti e annusati. Sempre, quando come in questo caso ne vale davvero la pena.

Il mio fumettista preferito di tutti i tempi: CHRIS WARE

Due paroline sulla vignetta che senza chiedere la minima autorizzazione a nessuno ho deciso di usare come testata del blog. Il personaggino ritratto sull'incazzato andante sul divano é l'ennesimo topo antropomorfo del fumetto americano. Dopo l'odioso e saputello Mickey Mouse (alzi la mano chi prova la benché minima simpatia per Topolino!), dopo Krazy Kat del geniale Herrimann, dopo il fondamentale Maus del Pulitzer Art Spiegelman e chissà quanti altri, ecco a voi Quimby the Mouse di Chris Ware.
Quimby non é - ovviamente - un fumetto per bambini, essendo il nostro topastro l'interprete di storie (vignette, schizzi, short stories) di malessere adolescenziale e altre amene problematiche umane "per adulti". Forse, come ogni altra storia di Ware, non é nemmeno un fumetto nel senso classico del termine. Definirei leggere un libro di Ware come un'esperienza a 360 gradi. I libri che raccolgono le storie di Quimby the Mouse, come del resto le raccolte di Acme Novelty Library e il "famoso" Jimmy Corrigan (vincitore a mani basse di una serie di premi letterari come libro dell'anno nel 2001), sono una vera goduria per gli occhi e un fuoco d'artificio di inventiva.
Tavole complesse e caratterizzate da una suddivisione delle vignette minimale e allo stesso tempo spettacolare, un segno pulitissimo e quasi stilizzato, un'impaginazione di una fantasia unica. Persino il formato dei volumi é peculiare, o molto grande o più piccolo degli standard consueti, magari con disposizione orizzontale (vedi Jimmy Corrigan). E una cura dei dettagli incredibile: microvignette ricavate nella costina dei libri cartonati, sovracoperte apribili che diventano poster (es. quella del n. 13 del libro-rivista McSweeney's Quarterly Concerns ideato dallo scrittore Dave Eggers, con incisioni dorate in rilievo), per non parlare delle finte inserzioni pubblicitarie o dei giochi-modellini in 3D da ritagliare e piegare onnipresenti in ogni suo volume.
Una tale quantità e "densità" di materiale grafico da lasciare senza fiato (e da far impazzire i traduttori: l'edizione italiana di Jimmy Corrigan é stata pubblicata nel 2010 dopo anni dal suo annuncio, ed é ad oggi l'unica opera dell'artista statunitense reperibile nella nostra lingua). Personalmente considero Ware un fumettista quasi più da "guardare" che da leggere, e naturalmente così dicendo faccio un torto alla qualità della sua scrittura. Ma é davvero una goduria per gli occhi: cercare le sue copertine del New Yorker per credere.

domenica 3 ottobre 2010

il mio disco preferito di tutti i tempi: FUNKADELIC/MAGGOT BRAIN

Non so se questo disco mi piace.
Ma come, direte voi: non é il tuo "disco preferito di tutti i tempi"?? No, stavolta devo ammettere di aver forzato un po' la mano... tra i mille miei "dischi preferiti di tutti i tempi" Maggot Brain ancora non ci é entrato.
Certo si tratta di un signor disco e di una pietra milaire presente in tutte le classifiche dei "n dischi più influenti del millennio" o perlomeno degli anni 70: a larghi tratti strumentale e in anticipo sui tempi (siamo nel 1971), con la chitarra lancinante di Eddie Hazel che la fa da padrone e attraversa rock, funk, psichedelia, gospel. Potrei dilungarmi in una critica approfindita dell'album e dirvi come l'ho trovato diverso da come me l'aspettassi, con dentro quasi più Pink Floyd (perdonate l'eresia) che James Brown e i Funkadelic che verranno. Ma il motivo per cui ne scrivo qui é un altro, ossia descrivere i meccanismi mentali che portano noi friki musicali ad accaparrarci le cose apparentemente più strane. La cosa ha un suo filo logico, e la logica non tradisce (quasi) mai.
Io sono partito da James Brown. O addirittura, prima, da Prince, primo vero amore musicale davvero "mio". Ero al liceo, siamo intorno all'88, epoca Lovesexy. Mi piacciono quei ritmi, leggo da qualche parte che il nanerottolo di Milwakee si é ispirato alla musica di James Brown e chiedo alle amiche di liceo di regalarmi per il compleanno "un disco doppio dal vivo" del Godfather. Che sfacciato. Di dischi doppi non se ne trovano ma uno singolo si: é "Soul Sessions Live" del 1988 e, nonostante (scoprirò dopo) il buon Giacomo Marrone fosse già in declino da più di 10 anni, é un ottimo disco. Scopro che quel parruccone un po' patetico visto qualche volta di sfuggita in TV ha scritto roba come "Papa's Got a Brand New Bag", e me ne innamoro. Anni dopo, arrivo ad avere una discografia di tutto rispetto. Mi interesso ai musicisti che suonarono con lui, e mi procuro cd dei vari Maceo Parker ("Maceo! Blow your horn!"), di Fred Wesley, dei JB's in tutte le loro incarnazioni. Madonna quanto mi piacciono! Scopro che nel '70 il nostro padre-padrone James tira un po' troppo la corda e viene mollato in tronco da quasi tutta la sua collaudata band: invece di mollare, quello ne recluta una nuova e spuntano i giovanissimi Catfish e Bootsy Collins, dio del basso, con cui cambia ritmo e sforna "Sex Machine" e la strepitosa nuova versione di "Give it up or turnit a loose": un groove pazzesco, mai sentito nulla di simile. Scopro ancora che pochi mesi dopo i fratelli Collins se ne vanno pure loro, e dove? Alla corte (dei miracoli) di tale George Clinton, che già conoscevo dato che nei primi anni '90 si fece produrre un (mediocre) disco da... Prince. Io quel disco ce l'avevo già, comprato e rivenduto causa scarsi ascolti. Ma la scintilla friki si riaccende: George Clinton!! Un atro parruccone in quella copertina del disco di princiana memoria: che serva un'acconciatura improbabile per diventare padri del funk?? Inizio a indagare... Clinton ha addirittura due gruppi, paralleli, quasi con gli stessi componenti, che a metà degli anni 70 rimpiazzano proprio James Brown come alfieri del funk più folle e all'avanguardia: Parliament e Funkadelic. Mentre il povero Giacomo Marrone si intorcina su se stesso e si perde via, questi lo sorpassano in curva a gran velocità: i primi più pop e groovy, i secondi più grezzi e rockettari. Entrambi, pazzi da legare soprattutto dal vivo, con una presenza scenica tra il circense e il kitch più sfrenato. A metà dei '70 persino Maceo e Fred lasciano il padrino del soul per raggiungere la P-Fuk Allstar (come verrà denominata la pazza combriccola clintoniana), e piano piano i due gruppi si mescolano fino a diventare tuttuno.
E in tutta questa storia il friki musicale che fa? Ovvio: ci sguazza e inizia a bazzicare sordidi negozietti per trovare tutte le discografie possibili e immaginabili di gruppi e sottogruppi e solisti e collaborazioni. Ci mette mesi, anni, dipendendo da quanto sono forniti i suoi pusher di fiducia, ricorre a internet, a volte si crede perduto ma alla fine ce la fa: accumula cd e cd, trova edizioni rare, ristampe con bonus tracks, dischi dal vivo, e alla fine nuovi collegamenti, nuovi rivoli che lo porteranno a scoprire altri luoghi musicali.
Personalmente sono a buon punto, ma ho ancora molta strada da fare.
Intanto chiudo gli occhi e mi ascolto la title track nel silenzio della mia notte barcellonese.

giovedì 30 settembre 2010

The Big Bang Theory: iniziata la quarta stagione!

Non sono mai stato un fanatico delle serie TV (e questo potrebbe togliermi molti punti nella classifica dei nerd). Per la verità da ragazzino ne vedevo parecchie, ed erano quelle storiche: Hazzard (AH! la cugina Daisy!), Happy Days, La Famiglia Bradford, I Jefferson (ADORAVO i Jefferson!), ecc ecc. Poi ho smesso. Sono uno dei pochi rimasti immuni alla Friends-mania prima e alla Lost-mania poi, e in mezzo mi sono perso un sacco di serie che molti definiscono imperdibili. Il fatto è che accendo poco la tv, e mi dimentico i giorni della messa in onda...
Ho fatto un'eccezione ultimamente per due serie divertentissime: BORIS e THE BIG BANG THEORY (3 stagioni cadauna, scaricate da internet e viste in pochi giorni).
Giovedì scorso è iniziata la quarta stagione di The Big Bang Theory, così posso finalmente finire di vedere le ultime puntate della terza: terrorizzato dal rimanere in astinenza, avevo centellinato le puntate mancanti.
Bentornati ai dr. Sheldon Cooper, Leonard Hofstadter, Howard Wolowitz e Rajesh Koothrappali, e naturalmente a Penny: sarà di nuovo bello riconoscersi nei vostri tic, nelle vostre manie, nelle vostre magliette e nella vostra imbranataggine, e vedersi lì in fumetteria con voi mentre sfogliate le novità alla ricerca dell'ultimo numero di Astonishing X-Men.

PS: so che da poco hanno iniziato a trasmettere le puntate doppiate su Italia 1: non guardatele, cercatevi l'originale USA magari con sottotitoli. Non c'è confronto, rischierebbe di non piacervi.

domenica 26 settembre 2010

il mio musicista preferito di tutti i tempi: John Cale

Un paio di settimane fa ho rivisto per l'ennesima volta John Cale in concerto, a Brescia. Mi era capitato più volte in passato, ed ogni volta era stata un'esperienza diversa: quasi pop e insolitamente leggero nel '97 per il tour di quello strano disco che era "Walking on Locusts", poi solo con piano e chitarra nel 2001, e ancora rock nel 2003 e soprattutto nel 2007 per il tour di "Circus Live". Senza dimenticare la prima volta, che non poteva essere se non per il brevissimo tour della reunion dei Velvet Underground del '93: in quella occasione mi apparì in tutta la sua grandezza come vera colonna musicale del gruppo, nonostante Lou Reed facesse di tutto per atteggiarsi a leader unico con esiti a tratti imbarazzanti. Non che avessi avuto dubbi in merito: le canzoni dei Velvet erano praticamente tutte di Lou, ma chi ci aveva aggiunto la viola, il piano martellante, quel basso nervoso, quell'organo che fa a botte con tutti gli altri strumenti (in "Sister Ray", per dire) era John. 
Dopo la cacciata dal gruppo, John Cale ha fatto un po' di tutto e quasi sempre bene se non benissimo: ha prodotto artisti fondamentali per la storia rock (gli Stooges, il Patti Smith Group, Jonathan Richman), ha fatto musica colta (il magnifico "The Academy in Peril", "Words for the Dying"), "pop" sinfonica con molte virgolette ("Vintage Violence", "Paris 1919"), rock (la trilogia per la Island a metà anni '70), punk prima del punk ("Sabotage"), dischi difficili ma straordinariamente affascinanti ("Music for a New Society"), collaborazioni con artisti importanti (Eno, Riley, Neuwirth, Siouxsie), colonne sonore, e tutto quanto ci sta nel mezzo, fondendo stili e restando sempre fuori dalle mode e un passo avanti rispetto a tutto quello che si poteva ascoltare nel frattempo. Durante questi ultimi anni pare aver raggiunto uno splendido equilibrio tra tutti questi stili, sia su disco (il magnifico "HoboSapiens" del 2003 su tutti) sia dal vivo, e il concerto di Brescia ne è stato un esempio. Riproponendo per intero "Paris 1919" con l'Orchestra Grande di Brescia, e arrangiando con archi e ottoni altre perle del suo repertorio, pescando molto dal passato remoto (la mia amatissima "Amsterdam", "Hedda Gabler" tra le chicche) e dando uno sguardo al futuro con un paio di canzoni nuove niente male. E, prima dell'ultimo bis di "Fear", con un'interminabile e potentissima miscela tra "Gun" e "Pablo Picasso" che speravo non finisse mai.
Un'artista unico, e fondamentale per la mia formazione musicale. E' a lui che devo l'amore per la distorsione, i ritmi ossessivamente ripetuti, il rumore fuso con la melodia. Credo che oltre a me, glielo debbano anche Sonic Youth, Jesus and Mary Chain, e moltissimi insospettabili altri (sarò di parte, ma addirittura ritrovo i ritmi martellanti e un po' sghembi di dischi come "Caribbean Sunset" in gente come i Franz Ferdinand).
Uno degli artisti più importanti e sottovalutati della musica degli ultimi 40 anni. 


Scaletta del concerto di Brescia.
Prima parte:
Child's Christmas in Wales
Hanky Panky Nohow
The Endless Plain of Fortune
Andalucia
Paris 1919
Graham Greene
Half Past France
Antarctica Starts Here
Macbeth
Seconda parte:
Hello, There
Catastrophic
Whaddya Mean By That
Amsterdam
E is Missing
Secret Corrida
Hedda Gabler
Gun > Pablo Picasso
Fear Is A Man's Best Friend


(foto e setlist presi qui)

sabato 25 settembre 2010

magliette/1

non so quante magliette possiedo. tante. troppe, probabilmente, ma continuo a comprarne e a non buttare via quelle vecchie, perchè ognuna ha una storia. ma non voglio ripetermi, ne ho già parlato tempo fa nell'altro mio blog.
questa è una delle due appena arrivate da threadless, e l'adoro.

friki, friqui, freak, nerd, insomma quella roba lì


da Wikipedia, versione spagnola:
friki o friqui (del inglés freak, extraño, extravagante, estrafalario, fanático), es un término coloquial, no aceptado actualmente por la Real Academia Española, que puede referirse a:
1) Un individuo que se muestra inusualmente interesado u obsesionado por un tema particular.
2) Aquellas personas específicamente interesadas (en algunos casos de manera obsesiva) hacia los temas de la llamada "cultura friki" (ciencia ficción, la fantasía, el manga, el anime, los videojuegos, los cómics y la informática, entre otros).
En algunos casos el término puede ser peyorativo.

il concetto credo sia chiaro nonostante la lingua. ho scelto lo spagnolo perchè 1) vivo in spagna, 2) la parola "friki" è spagnola, 3) la definizione italiana non mi soddisfaceva e 4) se no che friki sarei.  
naturalmente ci sono tanti modi di essere friki, e io ho il mio. per esempio, molti degli interessi tipici sopra elencati non sono i miei (fantascienza, roba giapponese, il genere fantasy...), io viro di più su musica, fumetti e altre cose che scoprirete se non vi siete già rotti le balle di leggermi. si, perchè un altra caratteristica dei friki - beh, mia perlomeno - è di tendere alla pedante prolissità per quanto riguarda le cose che interessano. ve ne accorgerete. 
blah blah blah blah blah blah blah blah.........