domenica 31 ottobre 2010

il concerto più bello di tutti i tempi: TINDERSTICKS @ Sala Apolo, Barcelona, 30/10/2010

Ho sempre amato i Tindersticks alla follia. Quella musica malinconica e potente, con forti accenti cinematografici; quel violino, quell'Hammond, quella voce. Li ho sempre trovati unici e insuperati.
Li ho visti in concerto innumerevoli volte, fin dalla primavera del 1994 al glorioso Bloom di Mezzago per la tournée del primo meraviglioso album. Poi ai Magazzini Generali di Milano nel '97 per l'altrettanto magnifico secondo disco, riuscendo anche a fare due chiacchiere al bar con 5 dei 6 componenti del gruppo (unico assente: Stuart Staples). E ancora nel '99, e Stuart da solo quando il gruppo pareva sciolto, a fine novembre 2006, appena tornato a Milano nel periodo più brutto e confuso della mia vita. Ricordo bene quella serata e le chiacchierate con l'amico Andre.
Qui a Barcellona li ho visti nel 2009, a febbraio, appena arrivato in città, primo concerto in terra catalana. Era anche il ritorno del gruppo inglese dopo 5 anni, ma con 3 dei 6 componenti originali che non c'erano più: erano altri Tindersticks, e nonostante il concerto all'Auditori mi fosse piaciuto molto, come del resto il loro album "The Hungry Saw", mancava qualcosa. Come mancava qualcosa da tempo anche nei dischi: sempre belli, con grandissime canzoni, ma qualcosa sembrava si fosse rotto rispetto ai primi tre capolavori. L'ultimo "Falling Down a Mountain", uscito all'inizio del 2010, mi è parso un gradino sotto l'album precedente, con più voglia di osare forse, ma in generale meno teso e più autocompiacente. Per questo dal concerto di stasera non mi aspettavo moltissimo: pensavo di vedere un gruppo sempre più che valido dal vivo, ma senza sorprese, senza quella tensione tipica dei primi lavori e più orientato verso  ballate morbide e acustiche che verso il peculiare rock degli inizi. Anche il doppio "Live in London" di quest'anno, venduto come tradizione solo sul sito del gruppo, pareva confermare questa tendenza.
Come mi sbagliavo.
E' stata forse uno delle loro migliori performance, e devo dire che mi è parso che i nuovi innesti (David Kitt alla chitarra e strumenti vari, anche titolare di una discreta carriera solistica che si è anche esibito in solitario in apertura di serata, e poi Dan McKinna al basso, Earl Harvin alla batteria e Andy Nice a violoncello e sax) abbiano raggiunto con il nucleo storico del gruppo un'intesa perfetta e abbiano trasmesso ai tre "vecchi" (Staples, David Boulter e Neil Frazer) un entusiasmo che mancava da tempo. Anche gli arrangiamenti hanno recuperato armonia e persino parecchio salutare rumore, che latitava ultimamente rischiando di far scivolare le canzoni verso una zona musicale pericolosamente molle. La scaletta ha riflesso questa tendenza, e le nuove canzoni si sono amalgamate benissimo con canzoni recenti e storici recuperi, alcuni davvero inaspettati ("Raindrops", "A Night In", "Marbles", "City Sickness", "Tiny Tears", persino "Tyed" e una sinuosa "Before you close your eyes", oltre a una spettacolare "Bathtime" tra le altre, tutte rese in modo splendido). Ho persino sentito poco la mancanza del fondamentale violino di Dickon Hinchcliffe, non solo per la presenza del violoncello quanto soprattutto per i nuovi arrangiamenti.
Senz'altro suonare finalmente in un club ha giovato: il pubblico entusiasta li ha trascinati con applausi senza fine fino alle quasi due ore di durata del concerto. Si sono visti addirittura sorrisi e sguardi scherzosi sul palco, e chi ha assistito ai vecchi concerti sa quanto questo sia sempre stata una vera rarità. Stuart, soprattutto, sempre con la chitarra a tracolla e vero leader del gruppo, molto più coinvolto e disteso di un tempo e persino trascinatore in canzoni nuove come "Harmony around my table" che ha chiuso il primo set tra le ovazioni del pubblico. Cose che in un posto dall'acustica perfetta ma piuttosto asettico e distante con l'Auditori, o con il pubblico distratto dei festival, non sarebbe successo.
I Tindersticks sono tornati dunque, non perdeteveli se capitano dalle vostre parti. Fidatevi, non temono rivali. In questo periodo si fa un gran parlare di gruppi come i National, che vanno molto di moda e per carità, sono anche bravi. Ma qui siamo su un altro livello: stiamo parlando dell'originale, non di una pallida copia.

Setlist (dal forum ufficiale):
La locandina che campeggia nel mio salotto
Falling down a mountain
- Keep you beautiful
- Marbles
- Sometimes it hurts
- She rode me down
- Peanuts
- Raindrops
- Bathtime
- Marseille sunshine
- The other side of the world
- Tyed
- Black smoke
- Factory girls
- A night in
- Harmony around my table

Bis1:
- Before you close your eyes
- City sickness

Bis 2:
- All the love
- Tiny tears

mercoledì 27 ottobre 2010

meccanismi

I perversi meccanismi mentali di certa gente (nel caso specifico e senza odiose generalizzazioni: miei).
In libreria. vedo e arraffo senza pensarci un attimo il volume delle storie di Superman scritte da Alan Moore. Nello stesso istante affermo: detesto Superman.
Comprensibilmente, la mia amica Alessia, compagna di scorribande in libreria, non capisce. Se non ti piace Superman perchè compri un libro di Superman?
Povera ingenua.
Provo a spiegarle che non è un libro di Superman, ma il libro delle storie di S. scritte da Moore. L'apprezzamentto per Alan Moore - le dico - vincerà sempre sull'antipatia per l'Uomo d'Acciaio.
In altre parole, è un po' come il famoso gioco "carta-forbici-sasso"... In ambito supereroistico moderno potrebbe essere parafrasato come: il personaggio oscura l'autore, l'autore la spunta sulla casa editrice, la casa editrice controlla il personaggio. Sempre che la casa editrice sia mamma Marvel; in caso (questo) l'editrice sia invece la Distinta Concorrenza, Alan Moore stravince su tutto. Ma tu vaglielo a spiegare ad Alessia.

PS. per una versione nerd del "carta-forbici-sasso" date un'occhiata qui.

domenica 17 ottobre 2010

il mio disco preferito di tutti i tempi: NEIL YOUNG/LE NOISE

Ora. C'é quest'uomo, un canadese di 65 anni. Scrive canzoni, se le suona e se le canta, da più di 40 anni. Ha fatto parte di gruppi che hanno fatto la storia (Buffalo Springfield, Crosby/Stills/Nash/Young), ha fatto dischi da solo e con i Crazy Horse alternando generi musicali diversi, dal country al rock più potente. Ha pubblicato canzoni e album epocali. Ha avuto il suo decennio di "bassa" (gli insopportabili anni 80, manco a dirlo) anche a causa di problemi familiari, e poi si é ripreso alla grande quando tutti ormai lo davano per bollito, ricominciando a macinare grandi canzoni e grandi album e diventando un punto di riferimento riconosciuto da icone del rock giovanile e alternativo come Pearl Jam, Sonic Youth, Pixies. Ha sempre fatto quello che ha voluto, artisticamente parlando, spesso e volentieri spiazzando fans e collaboratori con scelte discutibili e incomprensibili, magari preferendo uscire con dischi obiettivamente brutti e lasciando inedite canzoni stupende che altri non si sognerebbero mai di scrivere. Ha avuto un aneurisma cerebrale a cui ha reagito pubblicando uno dei suoi dischi più belli, e ha sofferto dolorose perdite tra amici e musicisti a lui molto vicini (l'ultimo ad andarsene, Ben Keith pochi mesi fa).
Oggi, appunto, Neil Young potrebbe godersi la vita dando concerti zeppi di greatest hits e godendosi la vita nel suo ranch, e invece se ne esce con un altro capolavoro storto e difficile: questo "Le Noise", trentaquattresimo album in studio della sua carriera, il cui titolo forse gioca sul termine inglese per "rumore" e il nome del produttore, Daniel Lanois.
Avevo sentito le nuove canzoni in anteprima qualche mese fa, nella registrazione di uno dei concerti del tour solitario che Young ha portato nei teatri americani in primavera: mi erano piaciuti molto e cervavo di immaginare come potessero essere nella loro versione definitiva, riarrangiati per il gruppo in tile "Harvest" o piuttosto in stile "Weld".
Invece no: c'é solo Neil in questo disco, lui con la sua chitarra a volte acustica e più spesso elettrica, ci sono molto feedback e pochi ritornelli memorabili. Ci sono i Crazy Horse pur senza esserci davvero. Sembrano quasi dei demo, queste 8 canzoni, in equilibrio tra un senso di incompiutezza e invece la sensazione che aggiungere anche solo una nota o peggio altri strumenti a queste perle grezze ne avrebbe turbato l'equilibrio. "Le Noise" va ascoltato più volte dall'inizio alla fine, bisogna entrarci dentro, farsi circondare e pervadere da quelle note e da quel canto che mai come stavolta somiglia a un lamento. É difficile, lo so, ma ci sono poche cose che valgano la pena in questi tempi aridi e freddi come immergersi nel mondo del vecchiaccio terribile Neil Young. Sentire "Hitchiker" (una delle molte canzoni finora perdute, risalente al '92) e leggerne il testo per credere.


L'album nella sua interezza può essere visto qui. Dopo averlo fatto, naturalmente, andate a comprarlo. Sono ancora uno di quelli che crede che i dischi (continuo a chiamarli così) vadano comprati e posseduti, e toccati, e aperti e annusati. Sempre, quando come in questo caso ne vale davvero la pena.

Il mio fumettista preferito di tutti i tempi: CHRIS WARE

Due paroline sulla vignetta che senza chiedere la minima autorizzazione a nessuno ho deciso di usare come testata del blog. Il personaggino ritratto sull'incazzato andante sul divano é l'ennesimo topo antropomorfo del fumetto americano. Dopo l'odioso e saputello Mickey Mouse (alzi la mano chi prova la benché minima simpatia per Topolino!), dopo Krazy Kat del geniale Herrimann, dopo il fondamentale Maus del Pulitzer Art Spiegelman e chissà quanti altri, ecco a voi Quimby the Mouse di Chris Ware.
Quimby non é - ovviamente - un fumetto per bambini, essendo il nostro topastro l'interprete di storie (vignette, schizzi, short stories) di malessere adolescenziale e altre amene problematiche umane "per adulti". Forse, come ogni altra storia di Ware, non é nemmeno un fumetto nel senso classico del termine. Definirei leggere un libro di Ware come un'esperienza a 360 gradi. I libri che raccolgono le storie di Quimby the Mouse, come del resto le raccolte di Acme Novelty Library e il "famoso" Jimmy Corrigan (vincitore a mani basse di una serie di premi letterari come libro dell'anno nel 2001), sono una vera goduria per gli occhi e un fuoco d'artificio di inventiva.
Tavole complesse e caratterizzate da una suddivisione delle vignette minimale e allo stesso tempo spettacolare, un segno pulitissimo e quasi stilizzato, un'impaginazione di una fantasia unica. Persino il formato dei volumi é peculiare, o molto grande o più piccolo degli standard consueti, magari con disposizione orizzontale (vedi Jimmy Corrigan). E una cura dei dettagli incredibile: microvignette ricavate nella costina dei libri cartonati, sovracoperte apribili che diventano poster (es. quella del n. 13 del libro-rivista McSweeney's Quarterly Concerns ideato dallo scrittore Dave Eggers, con incisioni dorate in rilievo), per non parlare delle finte inserzioni pubblicitarie o dei giochi-modellini in 3D da ritagliare e piegare onnipresenti in ogni suo volume.
Una tale quantità e "densità" di materiale grafico da lasciare senza fiato (e da far impazzire i traduttori: l'edizione italiana di Jimmy Corrigan é stata pubblicata nel 2010 dopo anni dal suo annuncio, ed é ad oggi l'unica opera dell'artista statunitense reperibile nella nostra lingua). Personalmente considero Ware un fumettista quasi più da "guardare" che da leggere, e naturalmente così dicendo faccio un torto alla qualità della sua scrittura. Ma é davvero una goduria per gli occhi: cercare le sue copertine del New Yorker per credere.

domenica 3 ottobre 2010

il mio disco preferito di tutti i tempi: FUNKADELIC/MAGGOT BRAIN

Non so se questo disco mi piace.
Ma come, direte voi: non é il tuo "disco preferito di tutti i tempi"?? No, stavolta devo ammettere di aver forzato un po' la mano... tra i mille miei "dischi preferiti di tutti i tempi" Maggot Brain ancora non ci é entrato.
Certo si tratta di un signor disco e di una pietra milaire presente in tutte le classifiche dei "n dischi più influenti del millennio" o perlomeno degli anni 70: a larghi tratti strumentale e in anticipo sui tempi (siamo nel 1971), con la chitarra lancinante di Eddie Hazel che la fa da padrone e attraversa rock, funk, psichedelia, gospel. Potrei dilungarmi in una critica approfindita dell'album e dirvi come l'ho trovato diverso da come me l'aspettassi, con dentro quasi più Pink Floyd (perdonate l'eresia) che James Brown e i Funkadelic che verranno. Ma il motivo per cui ne scrivo qui é un altro, ossia descrivere i meccanismi mentali che portano noi friki musicali ad accaparrarci le cose apparentemente più strane. La cosa ha un suo filo logico, e la logica non tradisce (quasi) mai.
Io sono partito da James Brown. O addirittura, prima, da Prince, primo vero amore musicale davvero "mio". Ero al liceo, siamo intorno all'88, epoca Lovesexy. Mi piacciono quei ritmi, leggo da qualche parte che il nanerottolo di Milwakee si é ispirato alla musica di James Brown e chiedo alle amiche di liceo di regalarmi per il compleanno "un disco doppio dal vivo" del Godfather. Che sfacciato. Di dischi doppi non se ne trovano ma uno singolo si: é "Soul Sessions Live" del 1988 e, nonostante (scoprirò dopo) il buon Giacomo Marrone fosse già in declino da più di 10 anni, é un ottimo disco. Scopro che quel parruccone un po' patetico visto qualche volta di sfuggita in TV ha scritto roba come "Papa's Got a Brand New Bag", e me ne innamoro. Anni dopo, arrivo ad avere una discografia di tutto rispetto. Mi interesso ai musicisti che suonarono con lui, e mi procuro cd dei vari Maceo Parker ("Maceo! Blow your horn!"), di Fred Wesley, dei JB's in tutte le loro incarnazioni. Madonna quanto mi piacciono! Scopro che nel '70 il nostro padre-padrone James tira un po' troppo la corda e viene mollato in tronco da quasi tutta la sua collaudata band: invece di mollare, quello ne recluta una nuova e spuntano i giovanissimi Catfish e Bootsy Collins, dio del basso, con cui cambia ritmo e sforna "Sex Machine" e la strepitosa nuova versione di "Give it up or turnit a loose": un groove pazzesco, mai sentito nulla di simile. Scopro ancora che pochi mesi dopo i fratelli Collins se ne vanno pure loro, e dove? Alla corte (dei miracoli) di tale George Clinton, che già conoscevo dato che nei primi anni '90 si fece produrre un (mediocre) disco da... Prince. Io quel disco ce l'avevo già, comprato e rivenduto causa scarsi ascolti. Ma la scintilla friki si riaccende: George Clinton!! Un atro parruccone in quella copertina del disco di princiana memoria: che serva un'acconciatura improbabile per diventare padri del funk?? Inizio a indagare... Clinton ha addirittura due gruppi, paralleli, quasi con gli stessi componenti, che a metà degli anni 70 rimpiazzano proprio James Brown come alfieri del funk più folle e all'avanguardia: Parliament e Funkadelic. Mentre il povero Giacomo Marrone si intorcina su se stesso e si perde via, questi lo sorpassano in curva a gran velocità: i primi più pop e groovy, i secondi più grezzi e rockettari. Entrambi, pazzi da legare soprattutto dal vivo, con una presenza scenica tra il circense e il kitch più sfrenato. A metà dei '70 persino Maceo e Fred lasciano il padrino del soul per raggiungere la P-Fuk Allstar (come verrà denominata la pazza combriccola clintoniana), e piano piano i due gruppi si mescolano fino a diventare tuttuno.
E in tutta questa storia il friki musicale che fa? Ovvio: ci sguazza e inizia a bazzicare sordidi negozietti per trovare tutte le discografie possibili e immaginabili di gruppi e sottogruppi e solisti e collaborazioni. Ci mette mesi, anni, dipendendo da quanto sono forniti i suoi pusher di fiducia, ricorre a internet, a volte si crede perduto ma alla fine ce la fa: accumula cd e cd, trova edizioni rare, ristampe con bonus tracks, dischi dal vivo, e alla fine nuovi collegamenti, nuovi rivoli che lo porteranno a scoprire altri luoghi musicali.
Personalmente sono a buon punto, ma ho ancora molta strada da fare.
Intanto chiudo gli occhi e mi ascolto la title track nel silenzio della mia notte barcellonese.