domenica 21 novembre 2010

Come iniziai ad amare la Marvel: le collane GIGANTI dell'Editoriale Corno

Ho iniziato a leggere a tre anni, grazie a papà e mamma e alla lavagna magnetica con le lettere. Prima lettura, insegna della farmacia a parte, naturalmente Topolino. Da bambino un po' più grandicello andavo da Piero, l'edicolante vicino di negozio della nonna a Levanto, e facevo man bassa di fumetti estivi. Qualcuno ricorderà quelle raccolte con la costina colorata di rosso: per un lettore onnivoro alle prime armi come me erano una pacchia, vista la mole di storie che contenevano. Non essendo ancora preda del demone del collezionismo non consideravo un problema le pagine un po' rovinate, il refilo spesso fatto un po' alla buona e quel colore sul bordo esterno delle pagine. Insomma, fu da Piero che entrai in contatto con mondi magnifici e che davvero avrebbero contribuito fortemente a formare i miei gusti in materia fumettistica e - perchè no - letteraria, e credo in qualche misura anche il mio carattere: Alan Ford e il Gruppo TNT innanzi tutto, e l'universo Marvel. Tutti quei personaggi erano pubblicati da una casa editrice milanese, l'Editoriale Corno; Alan Ford era scritto da un tale Max Bunker, e le collane di supereroi erano supervisionate da un certo Luciano Secchi. Di sicuro all'epoca non potevo sospettare che si trattasse della stessa persona. 
Dei personaggi Marvel adoravo le collane giganti,  che erano raccolte (scoprii dopo) in grande formato di storie dell'epoca d'oro degli anni 60 e 70. "L'Uomo Ragno Gigante" era il mio preferito, con le storie di Stan Lee e Roy Thomas e i disegni insuperati di John Romita (non ancora Senior, in quanto il Junior all'epoca sarà stato un bimbo in fasce) e Gil Kane. Mary Jane, il Coffee Bean, quella lagna di zia May, Kingpin che pestava duro con quelle manone e ancora non si era dedicato a rovinare la vita a Devil, Doc Ock, l'Avvoltoio e gli altri cattivoni storici, e soprattutto la morte dell'amata Gwen per mano di Goblin. Dramma, ma anche molta ironia. L'Uomo Ragno aveva il costume con gli occhi gialli e non bianchi, e rimase così per tutta l'epoca delle pubblicazioni Corno. Anche al primo Devil cambiarono il colore del costume, da giallo a rosso; le storie che amavo su "Devil Gigante" erano quelle disegnate da Gene Colan con quel tratto sporco e oscuro e quei corpi enormi, apparentemente sgraziati. A ripensarle oggi (e a ripensare quanto serio s'è fatto Matt Murdock negli ultimi anni) era tutto piuttosto assurdo, con quei nemici ridicoli tipo Stiltman o il Gladiatore; in compenso c'era la Vedova Nera, con poteri che non ho mai capito quali fossero, ma anche con quella chioma rossa e quel costume nero attillato con le cartuccere ai polsi che la rendevano sexy anche agli occhi di un bambino di 7 anni.

C'era poi la meraviglia dei personaggi disegnati da Jack Kirby. Su "I Fantastici Quattro Gigante" c'erano le storie mitiche degli anni 60, con esplorazioni intergalattiche, gli Inumani, Galactus e Silver Surfer. Quei disegni imponenti e quei macchinari enormi, inverosimili ma perfettamente credibili in quel contesto. I disegni del Re ogni tanto me li ritrovavo anche su "Vendicatori Gigante" e su "Capitan America Gigante", in cui c'erano personaggi che amavo meno e che avrei riscoperto solo decenni dopo.
Nei Vendicatori militavano Giant Man e Wasp, però, e Occhio di Falco e soprattutto Visione: quei personaggi minori mi intrigavano molto di più di Iron Man - mai sopportato, lui e quel vestito di latta inverosimile persino in un mondo in cui si vola e si passa attraverso i muri - e Thor, un po' con la puzza sotto il naso per i miei gusti con quelle arie da Dio che si dava. Anche se - ammettiamolo - la storia del martello era piuttosto intrigante. 
In quegli anni non andavo troppo per il sottile, a dirla tutta facevo anche un bel po' di confusione con i personaggi e non avevo la minima idea di continuity (meccanismo fondamentale nelle serie Marvel e con l'andare degli anni anche molto perverso). Ma leggevo di tutto, e in quel formato grande si trovavano raccolte anche di altri personaggi che capivo poco ma che leggevo comunque. Se erano "giganti" anche loro dovevano avere qualcosa in comune con quegli altri, no? E allora sotto con "Gli Eterni" (ancora Kirby all'ennesima potenza) e persino "Shang-Chi Maestro del kung-fu", in seguito dimenticato forse giustamente, chissà. "Kamandi" no, mi sa che era in formato più piccolo. A pensarci ora, mancavano gli X-Men, ma il loro clamoroso successo arrivò molto dopo e le loro prime storie erano poca cosa persino per uno che leggeva di tutto come me. Ricordo però che Ciclope e l'Uomo Ghiaccio mi intrigavano non poco, avevano un fascino tutto particolare che sarebbe sfociato in amore solo un decennio più tardi quando riscoprii i fumetti Marvel da adolescente, dopo qualche anno di interruzione...
L'Editoriale Corno era ormai fallita da tempo, i personaggi passati in mani diverse e appasionate, quelle della Star Comics. La magia restava, ma per quanto belle fossero le storie - migliori, in molti casi - e per quanto fossi entusiasta di ritrovare quei vecchi amici con cui ero cresciuto, l'incanto della scoperta era andato per sempre. Ormai viaggiavo verso l'età adulta, e i personaggi pure: autori importanti (Miller, Alan Moore, Claremont, Byrne), una casa editrice più organizzata, tutte quelle note di copertina che spiegavano di tutto e di più. L'amore per la Marvel - e per Alan Ford - si stava trasformando in amore per il fumetto, e avrebbe trasformato me in pericoloso collezionista che ripudiava le raccolte estive con la costina colorata...
Senza che me ne rendessi conto, però, mi mancava qualcosa. Mi mancava la pagina della posta in cui c'era sempre qualcuno che domandava se fosse più forte Hulk o la Cosa, mi mancavano gli adesivi "de-luxe" (quante volte da bambino mi sono chiesto cosa volesse dire!), mi mancavano persino le pubblicità della Big Babol con Daniela Goggi e quella della Girella o del Cono Atomic. Persino Piero aveva ormai venduto l'edicola, al mare, al suo posto un negozio di abbigliamento.
Era la spensieratezza dell'infanzia, che non c'era più.



venerdì 12 novembre 2010

il mio cantante preferito di tutti i tempi: ELLIOTT SMITH

In questi giorni di malattia passati a casa, in cui per la verità ho lavorato di più di quando sono in ufficio, ho approfittato per scaricare un po' di roba dalla rete. Qualche disco, un paio di film, un paio di documentari (uno su Giancarlo Siani, dopo aver visto finalmente "Fortapasc" di Marco Risi, e l'altro sul moglie e figlio "segretati" da Mussolini, dopo aver visto "Vincere" di Bellocchio), e qualche concerto video. Tra gli altri, un live acustico di Elliott Smith del 1999 all'Olympia di Washington.
Ho molto amato Elliott Smith e le sue canzoni tristi, malinconiche, spesso disperate. Ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore di appassionato di musica e anche nel mio cuore e basta, come fanno molte persone dalla storia travagliata e problematica alla cui storia mi sono appassionato: per restare in ambito musicale, Syd Barrett, Mark Eitzel, e altri loser più o meno famosi.
Di sicuro Elliott Smith non è mai stato un vincente, nè ha mai voluto esserlo: una vita ai margini dello showbiz, grunge all'ombra del grunge con la sua band (gli Heatmiser), autore di delicate canzoni acustiche quando andava di moda pestare forte sugli strumenti, sempre in punta di piedi suonando quello che piaceva a lui. Ossia canzoni sulla solitudine, sull'abbandono, sull'alcool e le droghe, sul suicidio: tutte situazioni che aveva provato sulla sua pelle o che tragicamente proverà in futuro. Testi crudi e poetici e melodie toccanti e molto personali, che si evolvono dallo stile quasi amatoriale dei primi album fino allo stile più ricco e agli arrangiamenti più elaborati degli ultimi lavori. In mezzo, una candidatura all'Oscar e una improvvisa visibilità che invece di dar luce alla sua carriera e alla sua vita lo fanno piombare in una depressione da cui non uscirà più. Un disagio verso i riflettori, una diffidenza verso il successo per molti versi paragonabili a quelle di Kurt Kobain, e destinate a risolversi con la stessa, tragica, fine.
Le performances dal vivo di Elliott Smith sono lo specchio fedele di questa evoluzione. Se ne trovano molte in rete, in video (su youtube naturalmente: si veda ad esempio la sua timida performance alla notte degli Oscar prima di Céline Dion, tutto vestito di bianco con gli occhi bassi a suonare quella magnifica "Miss Misery" candidata per "Good Will Hunting", e a domandarsi "che ci faccio io qui?" - e noi con lui) e in audio. Molti concerti possono essere scaricati gratuitamente qui: ce ne sono di tutte le sue fasi della sua carriera, dai concerti acustici degli esordi a quelli con band elettrica del periodo "Figure of 8", e ancora le performances tristi e sfasate degli ultimi mesi prima della morte, in cui il miglior modo per sfuggire alla fama e a quel senso di inadeguatezza che ne derivava era parso di nuovo l'alcool. Scaricateli, e ascoltateli, ne vale la pena: tutto è emozione quelle tracce, le pause e le chiacchiere col pubblico quasi più che le canzoni stesse.
Sono passati già 7 anni dalla sua morte, e ricordo benissimo il mio stato d'animo quando lessi la notizia: una grande tristezza, e un senso di impotenza di fronte all'ingiustizia della vita. Oggi leggo che è uscita una raccolta di sue canzoni, e spero davvero che qualcuno la compri e che si innamori di quelle melodie come era capitato a me.

Well, I don't know where I'll go now
And I don't really care who follows me there
But I'll burn every bridge that I cross
And find some beautiful place to get lost
And find some beautiful place to get lost
("Let's get lost", 2003)

domenica 7 novembre 2010

magliette/2

il mio manga preferito di tutti i tempi: JIRO TANIGUCHI/AL TEMPO DI PAPÀ

Non ho mai amato particolarmente il fumetto giapponese. O forse l'ho solo evitato, ne sono stato alla larga per evitare di essere risucchiato anche in quel mondo sterminato, come se non ne avessi già abbastanza di tutto il resto: supereroi, graphic novels, bonellismi e maxbunkerismi vari. Dove avrei trovato il tempo di leggerli? e soprattutto: dove minchia li avrei messi?? Meglio autoconvincersi che non mi piacesse, con tutti quegli occhi strani e quei retini e quei segni cinetici. Praticamente lo stesso meccanismo di autoconservazione che ho adottato con la Nutella e con i videogiochi: sono già abbastanza panzone e chiuso in me stesso da non potermi permettere altre cause di deriva fisica e psichica, quindi via col falsissimo "non mi piace". In effetti credo di aver letto solo qualcosa di Akira, senza grande entusiasmo (ma in quel caso influisce anche il mio scarso feeling con certo tipo di fantascienza) e "La storia dei tre Adolf" di Osamu Tezuka (bellissimo, invece).
Almeno finchè non mi sono imbattuto in Jiro Taniguchi, "il più europeo dei mangaka giapponesi" come viene definito, e della sua opera mi sono letteralmente innamorato. L'ultimo della sua lunga serie di romanzi a fumetti che ho letto è "Al tempo di papà", recentemente ristampato da Panini Comics nella nuova collana "Taniguchi collection" che - appunto - ripropone l'opera dell'autore.
Come in molte sue opere, anche in questi 12 capitoli che compongono il racconto l'autore ci presenta storie semplici e quotidiane di persone, più che personaggi, in cui tutti ci possiamo identificare nonostante la distanza geografica e culturale che ci separa del paese del Sol Levante. Non starò a riassumere la trama e le vicende di Youichi Yamashita e della sua famiglia, della sua vicenda di conflitti interiori con un padre che non ha mai capito e che riscopre davvero solo dopo la morte, nè vi racconterò i dettagli del suo rientro nel paese natale di Tottori (lo stesso in cui è nato l'autore stesso) e dei molti feedback che riempiono il romanzo e attraverso cui l'intera saga familiare ci viene svelata. Quelli si possono trovare agevolmente in rete insieme a molte recensioni; questa è una storia di sentimenti ed emozioni che a me non va di raccontare a parole. É una vicenda di silenzi e di legami intangibili, in cui il protagonista rimette poco a poco insieme i pezzi di una vita vissuta in gran parte scappando da una famiglia spezzata e non capita, e da un paese natale che rappresentava il dolore di questa perdita. Una storia che, come molte grandi storie, mi ha fatto pensare profondamente a me stesso. Alla fine anch'io ho passato gran parte dei miei anni in fuga da qualcosa o qualcuno, incapace di affrontare tante delle responsabilità che la vita - e i rapporti con le persone che ho tanto amato - mi hanno piazzato davanti. Mi è capitato di covare grandi e piccoli rancori, che è un modo molto ma molto semplice per evitare il confronto e soprattutto per non ammettere a sé stessi le proprie mancanze e le proprie colpe, per scappare e non affrontare le cose complicate da affrontare. Non ho davvero capito molte delle persone a me vicine, non ho capito il vero motivo di certi comportamenti e di certe debolezze, assumendo atteggiamenti troppo rigidi verso altri e troppo indulgenti verso me stesso. E ho creato le condizioni per tanti piccoli e grandi silenzi, per tante piccole e grandi fughe.
Ora sono stufo di silenzio e lontananza, e mi pare di capire finalmente che di colpe ne ho avute anch'io, eccome, e che soprattutto non è un dramma averne: è la vita che ci porta a fare cazzate e prendere abbagli. Ma la stessa vita ci da l'opportunità di capire e di rimetterci in piedi se davvero lo vogliamo, e al diavolo i sensi di colpa.
Purtroppo per molti dei danni fatti (uno in particolare, il più grosso, per quanto mi riguarda) non c'è modo di rimediare come vorrei, ma spero comunque di avere l'opportunità di riprendere un dialogo, un giorno. Per il resto, le emozioni sono quelle che ci fanno sentire vivi, e le emozioni vengono anche e soprattutto dalle persone che amiamo e che ci amano, e persino dai luoghi (fisici, spirituali) che queste rappresentano. Averne paura ci rende aridi, e scoprire "quello che avrebbe dovuto essere" solo quando è troppo tardi, come capita a You nel libro di Taniguchi (perchè è di quello che avrei voluto parlare, egocentrico che non sono altro), è un gran peccato. Grazie Jiro per avermi dato una conferma di questo, e per avermi insegnato cose fondamentali della vita solo e semplicemente scrivendo e disegnando uno splendido romanzo.