sabato 31 dicembre 2011

er mio mejo musicale der 2011

puntuale come non mai, eccomi a frantumarvi gli zebedei con le mie classifiche del 2011, consapevole che a pochi interesserà sapere quali sono i ciddì che più hanno vorticato nel mio lettore nel corso di quest'anno che si chiude oggi senza molto rimpianto.

Vi sparo lì tra capo e collo i 10 album dell'anno, in ordine alfabetico che non me la sento di riordinarli.

- THE BLACK KEYS: El Camino
- CRISTINA DONA': Torno a casa a piedi
- FEIST: Metals
- MAURO ERMANNO GIOVANARDI: Ho sognato troppo l'altra notte?
- GIRLS: Father, Son, Holy Ghost
- P.J. HARVEY: Let England Shake
- PRIMUS: Green Naugahyde
- TOM WAITS: Bad as Me
- THE WALKABOUTS: Travels into Dustland
- WIRE: Red Barked Tree

 

C'è un po' di tutto: grandi ritorni di amici di vecchia data (Tommasino Aspetta che ne ha sfornato un altro dei suoi, i Primus che anche se non hanno pubblicato un capolavoro sono tornati a farmi muovere la gambuccia e tanto mi bastava, gli adorati Walkabouts dopo 7 anni), italiani a ottimi livelli (gli album di Giò e di Cristina Donà sono tra i migliori della loro carriera), "nuovi" astri del firmamento musicale (Feist e i Girls, davvero a livelli altissimi), Polly Jean che fa storia a sè con un lavoro atipico che è cresciuto enormemente alla lunga distanza, e un paio di mie scoperte recenti (i Black Keys che dopo "Brothers" hanno pubblicato una raccolta di canzoni più "pop" ma non per questo inferiore, e i mostri sacri Wire, che il dio del rock ce li conservi in questo stato).
Se devo dirla tutta, i Girls e Feist se la sono giocata negli ultimi mesi per il gradino più alto del podio, coi primi in leggero vantaggio; poi sono arrivati i Walkabouts e hanno vinto allo sprint. L'album dei Black Keys è l'ultimo arrivato e mi sta dando soddisfazioni, ma è arrivato troppo tardi per raggiungere i vincitori. Disco dell'anno 2011 è per me, quindi (rullo di trombe e squillo di tamburi): TRAVELS IN THE DUSTLAND dei grandissimi WALKABOUTS.

Alcune menzioni d'onore per gli esclusi: citerei innanzi tutto CESARE MALFATTI come sorpresa dell'anno, e "premio della critica" (haha) per la cura in cui ha confezionato il prodotto e ha mantenuto i contatti con lo zoccolo duro dei fans dei La Crus. Appena fuori dai 10 il secondo album dei BIG SEXY NOISE, ovvero Lydia Lunch insieme ai Gallon Drunk: grezzissimo come il primo, e passato quasi sotto silenzio. Poi due dischi "acustici" (o quasi) di due alfieri dell'elettricità quali J MASCIS e THURSTON MOORE (a proposito: la separazione tra Moore e Kim Gordon è stata la notizia più luttuosa dell'anno), e JOAN AS POLICE WOMAN che si è alleggerita e ha fatto un disco molto gradevole. Dai WILCO e da MALKMUS mi aspettavo qualcosina in più, come dagli italiani DENTE e ZEN CIRCUS. I FALL, indiscussi campioni del 2010 per il sottoscritto, se ne sono usciti con un ennesimo album un po' troppo uguale agli ultimi 3 o 4 e sicuramente inferiore all'ultimo; ma probabilmente tra qualche mese starò qui a dire che capolavoro era. Il debutto di ANNA CALVI, idolatrato dai più e che pure mi è piaciuto, mi ha stancato presto... Bello invece 5, il ritorno dei LAMB dopo parecchi anni di silenzio, così come il primo disco solista di DAVID LOWERY (leader di Cracker e Camper Van Beethoven - chi non conosce questi ultimi, peste lo colga!).

In ambito riedizioni, raccolte e live, sicuramente primo l'agognato cofanetto delle "SMiLE Sessions" dei BEACH BOYS: con soli 45 anni di ritardo possiamo ascoltare il capolavoro scomparso (versione doppio cd). Purtroppo non ho ancora ascoltato la reissue di Some Girls degli Stones e non mi pronuncio; splendida invece l'operazione recupero di tutto il catalogo dei JESUS AND MARY CHAIN, ogni album riproposto con un cd di outtakes varie e un dvd. Il mio live preferito è senz'altro "Bestival 2011" dei CURE: la cronaca di un concerto perfetto, con il ritorno delle tastiere di Roger O'Connell. Beato chi c'era, e soprattutto beato chi era al ciclo di concerti "Reflections" in cui il gruppo di Robert Smith ha rifatto per intero i primi tre album, col temporaneo rientro in quadra nientedimenoche di Lol Tolhurst daopo 22 anni. Inserisco in questa categoria anche "Soul Time!" della fantastica SHARON JONES coi suoi DAP-KINGS, dato che si tratta di una raccolta di brani introvabili sui suoi precedenti album. La James Brown in gonnella dei nostri giorni?

Musica dal vivo ne ho vista molta, come al solito. A parte il Primavera Sound, in cui hanno svettato Jon Spencer Blues Explosion, Einstuerzende Neubauten, Grinderman e Pulp tra gli altri, cito il magnifico concerto barcellonese di PAOLO CONTE, il ritorno delle THROWING MUSES all'Apolo, e MICAH P. HINSON che ha rifatto i Pixies alla sua maniera.

Le canzoni dell'anno, a bruciapelo, sono tre: VOMIT dei Girls, THE ART OF ALMOST dei Wilco e LONELY BOY dei Black Keys (con il video più trascinante dell'anno), tutta roba che ti entra in testa e non se ne va più.

Voilà!

venerdì 30 dicembre 2011

21 anni nel Mucchio

Ho iniziato a interessarmi al rock e alla musica in generale in maniera più consapevole nell'estate del 1990, anno della maturità scientifica, grazie soprattutto ad alcuni compagni di classe che ne sapevano più di me e mi facevano "le cassette", e ad alcune trasmissioni radiofoniche ormai estinte (do you remember Stereonotte?). Ma non mi bastava, avevo bisogno di qualcosa di più "organizzato" e fu così che mi diedi alla lettura di riviste specializzate: Buscadero (poco), Rockerilla, Velvet, in seguito Rumore. Tutte abbandonate col tempo, tranne una: il Mucchio Selvaggio (per gli amici semplicemente "il Mucchio"), di cui non ho perso un numero da allora.
In particolare ricordo ancora oggi il primo acquisto: novembre 1990, la banana dei Velvet Underground in copertina, l'edicola di via Castelbarco di fronte a quello che ancora si chiamava "City Square" e che da lì a poco mi avrebbe visto spettatore del mio primo concerto "serio": i Violent Femmes.
Col Mucchio iniziai a conoscere cantanti e gruppi che non avevo mai sentito nominare, generi musicali sconosciuti, strumenti strani, storie incredibili:
mi si aprì un mondo magnifico che non pensavo potesse esistere. L'accoppiata Mucchio/noleggio cd mi diede "lavoro" per anni, e fu così che scoprii Tom Waits, Julian Cope, Nick Cave, i Clash, i Depeche Mode, i Pixies, le Throwing Muses, i Primus, Siouxsie and the Banshees, insomma moltissima della musica magnifica che da allora scandisce le mie giornate. E insieme a quella scoprii altro: cultura, libri, film. La politica quella no, ancora sulle pagine del Mucchio ce n'era poca, soprattutto se paragonata a quello che venne dopo.
Fu durante il servizio civile sulla riviera del Brenta, nel '97, che mi abbonai per la prima volta: il primo anno fu in comproprietà con l'amico Checco. Da allora la mia copia è sempre arrivata in casella, mai perso un numero, neppure oggi che vivo a Barcellona e che il Mucchio rappresenta persino di più: un amico lontano, una certezza che mi aspetta a casa al mio rientro.

Le firme del Mucchio mi divennero col tempo familiari e imparai a distinguere i gusti di ciascuno dei redattori, e a fidarmi più di alcuni che di altri: più di Guglielmi, Cilìa, Cico Casartelli, Mongardini, Vignola, ad esempio, che di Carlo Villa e della sua passione per "la terra d'Albione". Villa che vedevo settimanalmente da Supporti Fonografici, negozio in Porta Ticinese di cui era proprietario; Eddy Cilìa a cui una volta spedii un raro cd di Mark Eitzel che gli mancava. Molti altri a cui mi affezionai: ricordo i tempi in cui ci scriveva Roberto Giallo alias Alessandro Robecchi, e Andrea Scanzi che adoravo, e persino quell'impresentabile di Pierluigi Diaco. E ricordo le interviste a Magnus in un periodo in cui i fumetti erano roba per bambini, il "mio Magnus" che - scoprii - aveva disegnato persino un omaggio alla rivista in occasione del suo decimo anniversario.
Ma il Mucchio era soprattutto Max Stèfani, indubbiamente: fondatore e anima della rivista fin dal primo numero anni e anni prima, sosteneva da sempre la baracca con la sua indubbia personalità e la sua verve polemica che emerse sempre più forte col passare del tempo, via via che diminuiva il suo coinvolgimento diretto e attivo alla parte musicale della sua creatura.
Le cose cambiarono con gli anni: prima il Mucchio settimanale, "esperimento" durato parecchi anni, poi il ritorno alla mensilità con un deciso cambio di direzione, soprattutto per la parte extra-musicale che si ampliò notevolmente trattando spesso temi scottanti e trasversali (ricordo con piacere un'intervista ad Antonino Caponnetto, tra le tante degne di nota). E poi gli approfondimenti del Mucchio Extra, davvero ben fatti e necessari in tempi come i nostri in cui le notizie sono sempre più rapide e superficiali, e i vari speciali a tema. E quanti concerti visti gratis quando ero studente e il settimanale arrivava puntuale il lunedì, un giorno prima dell'uscita in edicola, con i suoi concorsi stile "il primo che chiama vince"!

Oggi il Mucchio è in difficoltà. Max Stèfani non c'è più, se n'è andato o l'hanno cacciato, chissà, e la guida del giornale è nelle mani di Daniela Federico e di una redazione capace che sta continuando a mantenere il livello molto alto: Guglielmi, Bordone, Cilìa, Vignola, Castelli, Pasini, Besselva Averame, Del Papa, Raugei, Ivic, altri ancora. Molte polemiche tra le due "fazioni" si sono potute leggere ultimamente su Facebook, e onestamente le ho trovate quasi sempre eccessive e non degne del nome degli interessati. Ho la mia opinione, naturalmente, ma in questo contesto me la tengo per me perchè ora non ha nemmeno tanta importanza stabilire chi è il buono e chi il cattivo. Il punto è un altro: il Mucchio rischia di chiudere dopo trentacinque anni, soprattutto a causa delle nuove norme in materia di finanziamenti pubblici ai giornali.
Perdere il Mucchio vorrebbe dire perdere una voce libera, un'autorità in materia musicale e non solo; un cervello capace di pensare fuori dal coro, e di questi temi non è poco. Io personalmente perderei un pezzo della mia vita lungo 21 anni, una bella fetta di quello che sono diventato, e una certezza per il futuro dato che non stiamo certo parlando di una rivista agonizzante ma al contrario viva e vispa come ai tempi migliori.
Non voglio che il Mucchio chiuda. Per questo oggi ho rinnovato il mio abbonamento con la formula "sostenitore", perchè agli amici bisogna dare una mano nel momento del bisogno. Se avete a cuore il destino di questo giornale e dell'informazione libera in un paese disastrato come il nostro, andate su www.ilmucchio.it e abbonatevi anche voi. Non ve ne pentirete, ne sono sicuro.

lunedì 26 dicembre 2011

Shopping milanese: 2) per regali di Natale

Tripla visita in fumetteria, a questo giro, anche se forzatamente breve causa tour de force natalizio: una scappata alla Borsa del Fumetto e due velocissime ai due Supergulp (bravi i ragazzi della sede sul Naviglio che tengono aperto fino a mezzanotte!) hanno fruttato qualche volume interessante che chissà quando riuscirò a leggere e qualche regalino di Natale per gli amici con la mente più aperta.
In occasione di ricorrenze importanti sono solito regalare "Maus" a qualche amico, di solito il classico scettico sui fumetti o che "non li ha mai letti": vuoi perché effettivamente non fanno parte delle sue letture abituali, vuoi per quello snobismo tipico di chi sotto sotto pensa che i fumetti siano roba da bambini o da ritardati mentali. Chi riceve il regalo state pur certi che cambia idea.
Quest'anno non avevo amici a cui regalare "Maus": l'unica papabile, appartenente alla prima delle due categorie di cui sopra, l'aveva già letto.
Il regalo a fumetti più gettonato è stato quindi "Post coitum", la raccolta di vignette che il grandissimo Makkox ha scritto per il Post , edita da Bao Publishing. Non so ancora se è piaciuto, ma mi sento di andare sul sicuro: Makkox è senza dubbio il miglior "giovane" (si fa per dire) autore italiano di satira, e non solo. Leggere anche il suo "Ladolescenza" per credere.
Altri regali a fumetti che ho fatto ultimamente tanto per mischiare comics e rock'n'roll sono stati il classico "Odio!" di Peter Bagge, "Io e il rock" di Joe Sacco e una delle raccolte (a dire il vero più facilmente reperibili in edizione spagnola) di "Love and Rockets" di Jaime Hernandez con protagoniste Maggie e Hopey, di cui sono segretamente innamorato da anni. Un giorno troverò il coraggio di dichiararmi.
Prossimamente, quando ne avrò l'occasione e quando troverò una persona che VERAMENTE se lo merita, regalerò l'integrale di Bone, MILLETRECENTO PAGINE di gioia assoluta che io ho in inglese ma che è da poco uscita per i tipi di Bao (sempre loro, che il dio dei fumetti li abbia in gloria).

Ci è scappato naturalmente anche qualche regalino per me. Innanzi tutto la riedizione in volume delle avventure vissute da Max Fridman durante la guerra civile spagnola: "No pasarán" di Vittorio Giardino è una gioia per gli occhi, stavolta ancor più apprezzata dal sottoscritto in quanto la magica linea chiara del maestro bolognese riporta indietro di 75 anni la Barcellona in cui vivo, e me con lei.
Poi ho preso il nuovo volume di Craig Thompson, l'autore del fondamentale "Blankets": "Habibi", frutto di ben sette anni di lavoro e a quanto si dice nuovo capolavoro della Settima Arte. Di sicuro a sfogliarne le pagine si resta senza fiato, tanto stupefacente è la fusione di oriente e occidente, vignette e calligrafia araba. Seicento e rotte pagine che prevedo di non facilissima lettura, e che a quanto leggo stanno dividendo la critica. Non vedo l'ora di iniziarlo e di poter dire la mia.
A margine, un applauso a Rizzoli Lizard: le ultime uscite della casa editrice (le due di Giardino e Thompson appena citate, ma anche la riedizione dello stesso "Blankets" e altro ancora: Taniguchi, Marjane Satrapi, Magnus, Tintin...) dimostrano che anche in una grande casa editrice generalista ci può essere passione e rispetto per il fumetto. Tredici anni fa, quando iniziai a lavorare alla mia tesi proprio sul fumetto e finii per entrare proprio in RCS, tutto ciò sembrava una pura utopia. Bravi, e speriamo che duri.

Beautiful losers: 1) Brian Wilson

Mi hanno sempre affascinato le vite complicate di personaggi pubblici. Quante volte si pensa che essere famosi, meglio se ricchi, sia motivo di felicità, e quante volte la vita ci dimostra il contrario. Non parlo naturalmente di personaggi la cui notorietà e ricchezza deriva dal vacuo apparire dei nostri tempi (non di veline, calciatori multimilionari o fabrizicorona, per intenderci). Parlo di vite sofferte di gente di una sensibilità fuori dal comune, artisti, cantanti, ragazzi incapaci di gestire il successo - o la perdita dello stesso - e il dono della creatività. Della vita di Buster Keaton mi ha sempre interessato di più la traiettoria calante: come reagì quando dopo l'avvento del sonoro le case cinematografiche non seppero più che farsene del suo incredibile talento e lui scivolò via via nell'anonimato e nell'alcolismo. Capire cosa provò nel fare un film con Ciccio e Franco forse addirittura di più che non sapere come girò "The General". Per dire.
La storia della musica e, più in generale dell'arte, é piena di persone fragili e, per un motivo o per l'altro, insoddisfatte, troppo orgogliose o incapaci (di gestire fama e successo, di relazione con pubblico e media, di affrontare blocchi creativi, più semplicemente di vivere): potrei citare la celeberrima Amy Winehouse di cui tutti hanno parlato e sparlato, ma preferisco nomi a me più affini quali Elliott Smith, Mark Linkous, Vic Chesnutt e, a ritroso nel tempo, Syd Barrett. Ma in questi giorni, chissà perché, sono ner trip dei Beach Boys quindi inizio parlando di Brian e della famiglia Wilson.

I "Ragazzi da spiaggia" sono associati, nell'immaginario collettivo non soltanto statunitense, al surf: canzoncine vuote che parlano di onde californiare e del loro contorno fatto di belle ragazze e divertimento estivo; e infatti divennero famosi agli inizi degli anni '60 con inni come "Surfin", "Surfin' Safari", "Fun fun fun", "Girls on the Beach" e soprattutto "Surfin USA". Una specie di colonna sonora di un "Baywatch" anni 60, insomma. Peccato che dei giovanissimi componenti del gruppo (i tre fratelli Wilson: Dennis, Carl e Brian, il cugino Mike Love più l'amico di studi Al Jardine: il più anziano aveva 16 anni), il solo Dennis fosse davvero un appassionato e praticante di surf: per gli altri fu solo una maniera di "cavalcare l'onda" commerciale (ops!) e imporsi nelle classifiche americane incarnando lo spirito felice e spensierato del boom economico, anche sotto la soffocante e manesca spinta di papà Wilson, Murray, primo dittatoriale manager del gruppo.
Questa strada stava stretta soprattutto a Brian, che fin da giovanissimo aveva imparato a scrivere canzoni e a costruire quelle armonie vocali che divennero il marchio di fabbrica della band. Leggenda vuole che, una volta ritiratosi dalle scene per dedicarsi all'attività in studio, iniziò una sua personalissima gara coi Beatles (epoca-"Revolver", a.d. 1965) per chi sfornasse l'album migliore del secolo, in un'epoca in cui il formato standard era il singolo e i 33 giri erano solo raccolte di successi infarcite di inutili riempitivi.
Inutile dire chi vinse la gara: a "Revolver", Wilson rispose con l'immortale e fantastico "Pet Sounds" (osteggiato da parte del gruppo, soprattutto da Mike Love che davvero non ci ha mai capito una mazza), ma quando i Fab Four calarono l'asso "Sgt. Pepper's" il cervello di Brian si incartò. Tentò di superarsi, moltiplicando all'ennesima potenza l'utilizzo delle innovative tecniche di registrazione sperimentate con l'album precedente, regalò al pubblico un anticipo sopraffino come "Good Vibrations" e creò un'aspettativa incredibile sull'annunciato album "Smile", ma alla fine il 33 giri fu cancellato. Brandelli ne uscirono (quasi sempre ri-registrati) nelle successive uscite discografiche a cominciare dal quasi omonimo (ma opposto per filosofia: tanto pomposo e stratificato doveva essere l'originale quanto grezzo, quasi lo-fi ante litteram, risultò questo) "Smiley Smile", e i Beach Boys continuarono, via via più mediocri e lontani dai gusti del pubblico, con un apporto creativo sempre più ridotto da parte di Brian.
Eh si perchè quest'ultimo si chiuse sempre più in sè stesso e nel suo abuso di sostanze, prigioniero di un mondo fatto di solitudine, cocaina, alcool, cibo e paranoie; addirittura rimase per quasi tre anni a letto a dedicarsi alle sue fobie, incapace di  rialzarsi, in tutti i significati possibili del termine. Riapparve faticosamente in qualche occasione, anche in concerto, a metà degli anni Settanta, contribuendo ad un paio di discreti album del gruppo (soprattutto "Love You") per poi allontanarsi di nuovo dalla musica e dalla realtà. La distanza tra la musica del gruppo, di nuovo vuota, leggera e poco ispirata, e la sofferenza del loro leader si fece improvvisamente e tragicamente incolmabile.
Fu allora che la famiglia decise di affidarlo alle cure di uno specialista, tale Eugene Landy. Come già aveva fatto con successo pochi anni prima, con metodi poco ortodossi (ossia: isolandolo progressivamente dagli affetti e rimettendolo in piedi, almeno fisicamente, attraverso rigidi programmi di autodisciplina) Landy riuscì a strappare Wilson dall'oblio in cui si era cacciato ma prezzo di una dipendenza crescente da calmanti e psicofarmaci di vario genere e, a detta della famiglia di Wilson, dallo stesso psicoterapeuta. A fine anni 80 Brian appariva infatti totalmente succube di Landy, che trasse anche notevoli vantaggi eonomici dalla rinata attività creativa di Wilson; la vicenda terminò agli inizi degli anni Novanta, con l'interdizione dello psichiatra dall'attività e da ogni rapporto con l'artista.
Vicenda complessa e non facile da giudicare; quel che è certo è che lo sguardo del Brian Wilson degli anni Novanta, segnati dal ritrovato rispetto di critica e pubblico e da una meritata quanto tardiva riappacificazione con sè stesso e col proprio repertorio, è uno sguardo sofferente e vacuo, quasi fosse carico di tutta la sofferenza provata durante gli ultimi 25 anni.
Negli ultimi anni Brian Wilson ha ritrovato parte del tempo perduto, pubblicando album solisti di ottimo spessore ma soprattutto riportando in tour la perfezione di "Pet Sounds" e rimettendo mano al capolavoro perduto "Smile", prima pubblicandolo come disco solista e poi, pochi mesi fa, immettendo per la prima volta sul mercato le sessions di registrazione del 1967. Anche ascoltate ora a più di 40 anni di distanza, queste tracce sono la testimonianza di un astro musicale di prima grandezza, capace di inventarsi letteralmente un genere fatto di melodi e armonie vocali uniche, e di perfezionarlo con tecniche di registrazione assolutamente innovative e fuori dal tempo. Fatto ancora più incredibile se si pensa che Brian Wilson è fin dall'adolescenza praticamente sordo da un orecchio a seguito di - si dice - percosse subite dal padre (ragion per cui la gran parte delle registrazioni del gruppo era in mono).
E' notizia degli ultimi giorni la reunion dei Beach Boys, per un album nuovo e un tour che raggiungerà anche l'Europa nel 2012. Personalmente spero che riuscirò a vederli, anche se Brian sarà il solo fratello Wilson presente sul palco: Dennis il surfista è morto infatti tragicamente nel 1983 dopo anni di vita turbolenta segnata dall'alcool, e un tumore si è portato via Carl nel 1998. Il cugino Mike Love sarà invece purtroppo parte del progetto: il classico caso di chi è stato baciato dal successo senza quasi aver capito perchè e, anzi, avendo spesso boicottato gli slanci creativi di Brian distinguendosi per ottusità e supponenza (vedere l'incredibile discorso fatto in occasione dell'introduzione del gruppo nella R'n'R Hall of Fame, per credere) oltre che per le inguardabili camice.
E i Ragazzi da Spiaggia, nonostante abbiano scritto almeno un paio di capitoli di musica di eccelsa qualità e siano stati protagonisti di una storia a dir poco travagliata, amati e rispettati da generazioni di musicisti, rimarranno sempre scolpiti nell'immaginario collettivo per delle allegre e apparentemente innocue canzonette che parlano di surf, ragazze e divertimento in California.

giovedì 27 ottobre 2011

Shopping milanese: 1) make mine Marvel

Ora, io torno in patria (e a Milano in particolare) circa una volta ogni mese/mese e mezzo per ragioni lavorative, e (suolo? solgo?) sono solito approfittarne per passare un weekend a casa.
Tappe fisse del sabato mattina sono il negozio di fumetti e un tentativo, ahimè spesso riuscito, di shopping librario/discografico/filmico, magari alla Fnac che ha un buon assortimento, discrete offerte e c'ho la tessera fedeltà con tanti bei punticino da accumulare.
Il risultato è un sempre maggiore affollamento dei miei scaffali, con le mensole della Billy che inspiegabilmente reggono al peso della cultura fumettistica e il mensolone alto del mobile del salotto che, a vederlo dalla media distanza, mi pare inizi ad avere una curvatura sospetta. I cd, quelli ormai sono accatastati a pigne un po' ovunque, soprattutto dietro il televisore.
A questo giro, facendo le solite scorte di uscite Marvel del mese, mi rendo conto che a molte collane potrei davvero rinunciare, tanto la qualità delle storie sta scivolando verso il basso. Innanzi tutto quelle dei Fantastici Quattro che, dopo la """""morte"""" (con quadruplo virgolettato) di un Johnny Storm dall'inquietante pettinatura da ragioniere, si chiamano Fondazione Futuro: i tre superstiti con orripilanti tutine bianche (da non perdere la Cosa con una salopette da sbudellarsi dalle risate), una masnada di giovani intelligentoni di cui ci dimenticheremo presto, e Lui, l'ex-solitario arrampicamuri che ora fa parte di tipo tre o quattro supergruppi diversi, manco fosse Mark Lanegan o Chris Cornell. Anche lui con la tutina bianca, s'intende, giusto un attimo dopo che sulla sua collana aveva inaugurato un'altro inutile costume coi catarifrangenti utile forse in caso la Ragno-mobile rimanesse in panne sulla Milano-Serravalle (ma per un'approfondita disamina sui millemila costumi inutili del nostro Peter Parker vi rimando al Dr. Manhattan che ne sa molte più di me, e le racconta pure meglio).
Parlo anche proprio della collana dell'Uomo Ragno (sorry Panini guys ma proprio non ce la faccio a chiamarlo Spiderman!), che mi sta annoiando parecchio e non da poco tempo. Parlo di Devil&Hulk che ormai è solo Hulk, anzi una serie di Hulks coi colori dell'arcobaleno, ma tutti che menano come fabbri. Ah, i bei tempi di Peter David! Vedremo cosa combineranno con Devil nel 2012, sperando che le storie siano molto ma molto meglio del ciclo Shadowland che proprio non si poteva leggere (e infatti non l'ho letto).
Alla fine le serie migliori sono quelle legate al mondo dei Vendicatori, che io non avevo mai cagato più di tanto ma che da qualche anno mi danno soddisfazioni: persino personaggi insopportabili come Iron Man appaiono finalmente moderni, per non parlare di Cap. Troppe squadre di Avengers, quello si, e (blasfemia!!) devo dire che i disegni ipertrofici del buon John Romita Jr. mi stanno cominciando a stufare non poco.
Restano le valide collane di ristampe classiche (finiti i quattro numeri dedicati ai Fantastic Four di Lee&Kirby si attaccherà con Iron Man), a cui si è aggiunta questo mese la gradita sorpresa del primo di 4 numeri dedicati al Conan di Roy Thomas e dell'incommensurabile John Buscema. E restano alcuni volumi della serie 100% Marvel, o Marvel Classic che dir si voglia: 'sto mese il primo volume di The Tomb of Dracula di Colan, purtroppo a colori, e il primo (di due) dedicato al crossover Massacro Mutante. I bei tempi in cui c'erano gli X-Factor dei coniugi Simonson (e i personaggi di Walt avevano tutti il labbro un po' imbronciato), gli X-Men di Claremont e un Romita Jr allora bravo sul serio e i New Mutants disegnati da Barry Windsor Smith e Butch Guice. I bei tempi in cui Wolverine non era ubiquo e parte di 67 gruppi diversi, compreso quello della bocciofila levantese.
Lo so cosa penserete: che palle questo, sempre a dire che una volta era meglio: musica, fumetti, possibile che ora non ci sia niente di buono e che il mondo si sia fermato nei '90? Lo so, é l'età che avanza e forse é solo nostalgia alla soglia dei quaranta. Ma no dai, che il mio shopping ha riguardato anche altro, e più nuovo. Ed é anche roba bella: il nuovo libro di Bastien Vivès e, finalmente, "Asterios Polyp" di David Mazzucchelli. Lo aspettavo da almeno un anno.
Ne parliamo la prossima volta.

lunedì 26 settembre 2011

piccolo ricordo di Sergio Bonelli

Oggi è morto Sergio Bonelli, figlio di cotanto padre ma non solo: da decenni il principale autore di fumetti italiano e a sua volta autore di personaggi storici (Zagor, mai cagato, e Mister No che invece per un periodo discretamente lungo ho letto avidamente) con il nom de plume di Guido Nolitta.
Non mi dilungherò sull'uomo e sul personaggio, sulla sua importanza nel panorama fumettistico italiano e non solo: leggerete di tutto e di più sui giornali nei prossimi giorni. Da parte mia, solo un piccolo ricordo personale.

Feci la mia tesi di laurea sul fumetto (lo so, sono laureato in economia: e allora?), trattando a margine il caso Sergio Bonelli Editore contrapposto a quello Panini (allora Marvel Italia); per l'occasione chiesi un'intervista a Bonelli che però era fuori Milano per lavoro, o forse per uno dei suoi viaggi in Amazzonia, chissà. Parlai quindi con Decio Canzio, suo braccio destro e ligure come me, e finimmo per parlare di focacce e insenature. A Sergio Bonelli inviai una copia rilegata della tesi, dopo la laurea, non nascondendo il mio desiderio di lavorare per la sua casa editrice. Mi rispose con una lettera molto gentile che no, loro marketing non ne avevano ma si affidavano piuttosto all'esperienza e all'istinto. E commentò la mia tesi, con riferimenti precisi alle pagine e ad alcune cose che avevo scritto, correggendomi e incoraggiandomi.
Lo ringrazio per la passione e la pazienza, oltre che per il coraggio di essere stato una delle due o tre persone ad aver letto quel mattone piuttosto insignificante.
Come concluderebbe uno dei personaggi da lui pubblicati, forse il migliore di tutti: so long, Sergio...

sabato 17 settembre 2011

gruppi "unici": 3) PRIMUS

Ah, i Primus! Sono uno di quei gruppi che mi ha sempre fatto ridere. Ce n'è una sfilza, di gruppi e cantanti che amo per l'allegria che mi suscitano: Cramps, Violent Femmes, Flaming Lips, ovviamente Jonathan Richman. I Primus sono diversi anche in questo, un cartone animato in musica: merito innanzi tutto del loro leader indiscusso, Les Claypool, della sua maniera asolutamente incredibile di suonare il basso, della sua "voce" (qui mi è venuto da metterci le virgolette, volendo evitare il banale paragone con Paperino) e della sua vena assolutamente cazzona e surreale. Uno che solo per fare un esempio, intitola il sito web del gruppo "Primus Sucks" ("i primus fanno schifo"), che chiama il suo studio di registrazione "Prawn Songs" (in omaggio alla "Swan Songs" di ledzeppeliniana memoria, ma sostituendo il cigno con un gambero), che ha un fan club chiamato "Club Bastardo" o che ama travestirsi da maiale in pubblico o da pinguino per presentare un singolo da David Letterman. Per non parlare degli esilaranti video che da sempre accompagnano i loro singoli, grande sberleffo alle mode patinate della MTV dei tempi d'oro.

Les. 
Claypool.

Les Claypool è il dio indiscusso del basso, e sfido chiunque a dire il contrario: funambolico è l'aggettivo più usato e abusato (e quindi ne abuso anch'io, tiè) per descrivere il suo stile. Il basso è naturalmente lo strumento su cui si basa ogni canzone di questo gruppo nato a metà anni '80, che esordì con un live autoprodotto (o meglio, prodotto coi soldi di Mr. Claypool senior) in cui era già presente molto di quello che li avrebbe caratterizzati negli anni del grande successo: le canzoni innanzi tutto, riprese due anni dopo nella quasi loro totalità nel loro primo album in studio (l'epocale "Frizzle Fry"), ma anche il pupazzo di plastilina in copertina, il gusto per il grottesco e la grande ironia cazzara che li avrebbe contraddistinti oltre che distinti dagli altri gruppi indie rock che nascevano con loro in quegli anni che sarebbero sfociati nel grunge, spesso prendendosi troppo sul serio. La formula musicale era già ben definita dopo anni on the road: il basso scatenato di Les e la batteria di Tim "Herb" Alexander scandivano la parte ritmica, con grande inventiva e cambi di ritmo continui, mentre la chitarra elettrica di Larry LaLonde andava per i fatti suoi, con l'assolo dissonante decisamente preferito alla ritmica.
Nel corso degli anni questo stile, tra metal, hard rock, funk, filastrocca per bambini e Frank Zappa (il termine di paragone spesso usato per trovare un riferimento a un gruppo che ne ha talmente pochi), si perfezionerà in un crescendo di album bellissimi: dopo "Frizzle Fry" arriveranno "Sailing the Seas of Cheese" (il formaggio sembra piacere parecchio al nostro Les, tanto che confezionerà una raccolta come una fetta di Emmental e intitolerà "Tour de fromage" il tour del rientro sulle scene, un paio d'anni fa), "Pork Soda", "Tales form the Punchbowl". Poi, dopo un cambio di batterista, un paio di EP di cover e un paio di mezzi passi falsi come "The Brown Album" e soprattutto il conclusivo "Antipop", che contengono qualche grande pezzardone dei loro ma anche qualche riempitivo e troppi ospiti "famosi" per essere veri, strizzando in più di un'occasione l'occhio al metal convenzionale. L'unico punto fermo è la clamorosa ospitata di Tom Waits in "Coattails of a Dead Man": il nostro Orco preferito è del resto amico e fan del gruppo, avendo partecipato ai loro album fin dalla storica e sempre impressionante "Tommy the Cat" e avendo ricambiato l'ospitalità in "Big in Japan" sul suo album "Mule Variations".

Da allora, e siamo nel 1999, poche notizie dei Primus: anche se lo scioglimento ufficiale non arriva mai, Les si dedica a una miriade di progetti paralleli, mettendo in naftalina il suo gruppo principale ma continuando a fare musica coi nomi più diversi (Sausage, Colonel Claypool's Fearless Flying Frog Brigade, Colonel Claypool's Bucket of Bernie Brains, Oysterhead, The Holy Mackerel) e collaborando con nomi illustri (Bernie Worrell dei Parliament, Buckethead, Trey Anastasio dei Phish, Stewart Copeland dei Police), e arrivando finalmente a pubblicare album a suo nome. La sua musica si fa sempre meno definibile col passare del tempo, e ci si perde un po' nel cercare di seguire questa traiettoria, che spazia da cover dei Pink Floyd (con i Frog Brigade arriva a pubblicare il rifacimento dell'intero "Animals") al free jazz. Il basso, quel basso, è sempre lì in primo piano ma a un certo punto si inizia a pensare: Les, aridacce i Primus!
E invece solo un EP di inediti nel 2003, un paio di DVD e ancora nulla per altri troppi anni. Poi, poco a poco, rieccoli tornare: un tour nostalgico che va tanto di moda, per la serie la-ritrovata-gioia-di-suonare-insieme-dopo-anni e quello-spirito-che-si-era-perso-e-all'improvviso-eccolo-qua. E soprattutto un album nuovo, appena uscito e che -UDITE UDITE - è anche un gran bell'album! Si intitola "The Green Naugahyde", ha un omino di latta che va in bici in copertina e vede il batterista originario Jay Lane rimpiazzare Herb che evidentemente ha il cuore duro e non si è fatto fregare dalla bellezza del revival. Peggio per lui: grandi canzoni, poche pippe progressive e back to "Frizzle Fry" e "Seas of Cheese": sentire "The Last Salmon Man", "Moron TV", l'iniziale "Hennepin Crawler", il primo singolo "Tragedy's A-Comin'" o una delle mie preferite, "Lee Van Cleef", per credere.
Spirito originale recuperato, qualità altissima, nessuna operazione-nostalgia fine a sé stessa. Un grande ritorno, che spero sarà portato prestissimo in giro dal vivo anche da queste parti. Come i Primus, nemmeno nel 2011, non c'è nessuno in vista.

Nota di colore: ebbene si, erano proprio loro a suonare la sigla di South Park. "Cartoni animati in musica", dicevo all'inizio: ecco che il cerchio si chiude. Primus sucks!

venerdì 9 settembre 2011

Micah P. Hinson rifà i Pixies all'Apolo

Il Micah Paul Hinson che esce alle 21.15 sul palco dell'Apolo è la quintessenza del nerd: magrissimo e un po' sghembo, viso spigoloso troppo grande per quel corpo sottile, orecchie a sventola su cui appoggiano occhiali dalla grande montatura, capelli leccati con la riga da una parte; e poi canotta, bretelle e zainetto in spalla (lo terrà accanto a sè per tutta la sera, frugando ogni tanto nelle tasche a cercare chissà cosa) e braccio al collo, conseguenza dell'incidente d'auto patito a luglio sulla strada da Zaragoza a Barna che lo obbligò a cancellare le date estive. Esordisce proprio dicendo che non sta bene, e che è quasi senza voce per aver urlato le sere prima "like a fucking maniac".
Spera che ci vada bene lo stesso e, subito dopo una intro di chitarra e batteria notissima ed entusiasmante per tutti i presenti, attacca con un vocione roco e stonatissimo che pare impossibile esca da quel corpo così esile: "Why do Cupids and angels continually haunt her drems like memories of another life is painted on her shirt in capitals...". Al primo urlo si capisce che il ragazzo fa sul serio. 
Fucking maniac.
Il ciclo di concerti "We used to party" è composto da cantanti o gruppi noti a cui viene chiesto di suonare per intero un album da loro scelto: si iniziò qualche mese fa con "London Calling" dei Clash riproposta live da Chuck Prophet (gran concerto, anyway), e ora è il turno del texano Micah, autore dalla vita complicata e  dalle grandi capacità poetiche tornato alla grande nel 2010 con l'ultimo album "The Pioneer Saboteurs". Musicalmente siamo dalle parti dei vari Bill Callahan, Will Oldham, Sparklehorse, Leonard Cohen, per cui non so cosa aspettarmi dalla scelta di "Trompe le Monde" dei Pixies: pare agli antipodi e invece leggo in un'intervista che è nientedimeno che "il disco che gli ha cambiato la vita" quando aveva 10 anni. 
Vocione roco e stonatissimo, si diceva: un timbro quasi waitsiano, reso tremolante e insicuro dal precario stato di salute, che se inizialmente spiazza e fa temere il peggio, via via pare addirittura l'unica maniera possibile di riproporre il canto del cigno dei Pixies prima dello scioglimento avvenuto nel 1991. Sostenuto da una band solida ma non strabiliante che si limita a ricalcare le canzoni della storica band di Boston, il buon Micah si lancia in urla belluine degne del miglior Black Francis, rese ancora più surreali dai movimenti a tratti degni di uno Ian Curtis dei giorni nostri, accentuati dal tutore che gli blocca il braccio sinistro. I timori di un flop svaniscono ben presto, Hinson sembra nato con queste canzoni addosso ed è fantastico riascoltare Alec Eiffel, Planet of Sound, Subbacultcha, Head On ("cover al quadrato", giacchè i Pixies la ripresero dal repertorio dei Jesus and Mary Chain), U-Mass, Lovely Day, Motorway to Roswell, chicche dimenticate come "Bird Dream of the Olympus Mons".
Tornato a casa rivedrò gli scarsi spezzoni che si trovano su Yutube, relativi al concerto di luglio appena prima dell'incidente, che mi convinceranno che si, con la voce di stasera è stata tutta un'altra cosa.

Per i generosi bis (condite di siparietti tra il cantante e la band, con tanto di pastiglie - per il mal di schiena o altro? - prese tra una canzone e l'altra) il repertorio è il suo e si cambia atmosfere, rimanendo su livelli altissimi di emozione. Il finale è una versione solitaria di "Drift Off to Sleep", che naturalmente non conosco ma che ancora una volta mi fa capire che sono davanti a un grande artista.

giovedì 25 agosto 2011

gruppi "unici": 2) SOUL COUGHING

Tre soli album tra il 1995 e il 1998 per i Soul Coughing, un grande gruppo newyorkese che mi é sempre piaciuto moltissimo e a cui devo anche un ricordo particolarmente caro: il concerto visto al Rolling Stone di Milano insieme - tra gli altri - a quella che sarebbe diventata mia moglie (e poi la mia ex-moglie, ma non é colpa loro).
Il primo album in particolare, "Ruby Vroom", fu un esordio fulminante come pochi: allo stesso livello in quel periodo mi sento di mettere solo "Vivadixie ecc. ecc." di Mark Linkous a.k.a. Sparklehorse e "Beautiful Freak" degli Eels. E fu un album unico nel panorama di quegli anni: un mix di indie rock, jazz, hip-hop, drum'n'bass e chissà cos'altro ancora. Mike "M." Doughty cantava e declamava i suoi testi, tra classica forma canzone, improvvisazione e poesia free form, su un tappeto sonoro fatto da una sezione ritmica scatenata (il contrabbasso di Sebastian Steinberg, il drumming nevrotico dell'israeliano Yuval Gabay e la sua stessa chitarra ritmica) e dai campionamenti imprevedibili e originalissimi di Mark De Gli Antoni: il risultato, spiazzante, é già tutto nella canzone di apertura "Is Chicago, Is Not Chicago". Da lì in poi, nemmeno un passo falso fino alla conclusiva "Janine", ballad sghemba registrata sopra un messaggio vocale della ex di Mike. Sarebbe inutile citare i titoli migliori perchè non riuscirei a selezionarne alcuno che si elevi sopra gli altri, in un album perfetto come questo; ma dato che ho una pistola puntata alla tempia mi vedo obbligato a citare "Casiotone Nation" e "Mr. Bitterness". Uno dei cd che ho consumato nel lettore, in tempi in cui gli mp3 non esistevano e i dischi si ascoltavano dall'inizio alla fine con grande voracità.
Un passetto indietro per il successivo album, "Irresistible Bliss", una raccolta più "normale" di canzoni dalla struttura leggermente più canonica (si vedano "Soundtrack to Mary" e "Soft Serve", comunque magnifiche, per credere). O forse è solo che l'effetto sorpresa venne meno rispetto a due anni prima; si, perchè comunque qui c'è il capolavoro assoluto "Super Bon Bon", cavallo di battaglia dal vivo e di cui anche i Propellerheads fecero un gran bel remix.
Qualche canzone sparsa su colonne sonore (quella di "Smoke" la più ambiziosa) ed eccoci al terzo, difficile album: "El Oso", uscito a fine 1998. Che si apre con le dure "Rolling" e "Misinformed" per proseguire con la deliziosa chitarra scordata di "Circles", la loro maggiore hit radiofonica. In generale, un album teso e lontano dalle melodie del precedente, che vira dal jazz degli esordi verso il drum'n'bass, e che vede prepotente il ritorno dei caratteristici campionamenti di De Gli Antoni. Col senno di poi, forse l'album in cui i Soul Coughing hanno osato di più ("sentite "$300" e ditemi se avete mai sentito niente del genere alla radio), e che per questo è cresciuto meglio nel tempo. Allora fu solo, ahimè, il preludio alla fine del gruppo, dovuta forse a scontri sulla direzione da prendere, forse al mancato successo, probabilmente accelerata da divergenze sui diritti d'autore e dalla dipendenza dall'eroina del frontman.

Dopo lo scioglimento, avvenuto nel 2000, poco da segnalare. Mike Doughty ha avviato una carriera solista lontano dai riflettori, suonando spesso come one-man band con sola chitarra e voce, e presentando un repertorio che ha virato via via verso una sorta di folk-pop piuttosto anonimo. Mark De Gli Antoni e Sebastian Steinberg hanno suonato come sessionmen per vari artisti, tra cui David Byrne, mentre Yuval Gabay è rimasto vicino al d'n'b suonando per gente del calibro di Roni Size. Poca cosa, purtroppo, visto l'altissimo livello a cui ci avevano abituati. Non resta che consolarsi cercando in rete i numerosi brani dei Soul Coughing rimasti inediti, che continuano a dimostrarci che di gruppi così, al giorno d'oggi, non ne fanno più.

mercoledì 24 agosto 2011

parliamo di gruppi "unici": 1) MORPHINE

Spessissimo sentiamo il bisogno di mettere etichette alla musica che ci piace (non solo alla musica, naturalmente), a incasellarla in un genere o a compararla ad altra musica per avere dei punti di riferimento. Così, sentiamo dire che i primi Coldplay erano "stile Radiohead", che un sacco di gruppi inglesi nati dopo i Massive Attack fanno musica "trip hop" (Portishead? Ovviamente Tricky? i primi Morcheeba?), che Ligabue è lo "Springsteen italiano" (argh).
Ma per fortuna ci sono gruppi inetichettabili, unici, che fanno e soprattutto hanno fatto musica che non somigliava a nulla che fosse arrivato prima e che non sono stati imitati da nessun altro dopo. In particolare, mi vengono in mente tre nomi che ho amato moltissimo negli anni 90 e che continuo ad ascoltare ancora adesso con immutata ammirazione: parlo dei Morphine, dei Primus e dei Soul Coughing.


Uno dei grandi rimpianti della mia vita da appassionato di musica è non aver mai visto i Morphine suonare dal vivo. Dovevano essere grandiosi, live ancor più che su disco, almeno a giudicare dalle registrazioni disponibili: "Bootleg Detroit", l'unica ufficiale, e i molti concerti che si trovano scaricabili in rete o su youtube: dolci e furiosi, soul e rock, classici e sperimentali. tutto in un solo gruppo indefinibile a parole. Come si può infatti definire una musica fatta del basso a due corde (!) del leader Mark Sandman, della batteria jazzy di Billy Conway (e/o Jerome Duprée) e del sassofono (spesso DUE sassofoni suonati CONTEMPORANEAMENTE) di Dana Colley?
Niente chitarre, nè elettriche nè acustiche, niente melodie convenzionali, niente che abbiate già sentito prima: solo i Morphine, il loro suono unico, definito tra il '92 e il '99 da una manciata di album di altissimo livello, tra cui spicca "Cure for Pain" e di cui il solo "Like Swimming" vede abbassarsi leggermente la qualità del songwriting, come a cercare una nuova direzione sonora che ancora non appariva chiara. Nell'ultimo "The Night", uscito nel 2000, nuove strade apparivano all'orizzonte ma era ormai troppo tardi: Mark Sandman ci aveva già lasciato tragicamente, morendo d'infarto alla fine del concerto di Palestrina, vicino a Roma. Ecco perchè il mio rimpianto è incolmabile, da vivo non li vedrò più: ma non posso fare a meno di tornare periodicamente a vedere come avrebbe potuto essere.

Ps. Segnalo un ottimo box dedicato a Sandman e uscito dopo la sua morte, contenente varie tracce audio e video dei mille progetti paralleli di Mark, che dimostrano quanto la sua mente fosse prolifica e vulcanica. Da non perdere anche il suo gruppo precedente ai Morphine, i Treat Her Right (in cui militò anche Conway), autori di un rock-blues più "canonico" ma molto interessante. Un film sulla storia di Mark Sandman dal titolo "Cure for pain" sta per uscire nelle sale americane (il trailer qui), a testimoniare, speriamo, il ritrovato interesse per la sua musica e la sua storia. C'è anche una fondazione no profit a lui intitolata  ("The M.S. Music Project") che si preoccupa di dare ai bambini un'educazione musicale mettendo a disposizione corsi e sale di registrazione.
Quanto a Colley e Conway, i due hanno proseguito insieme dopo la scomparsa del loro leader: prima rendendogli omaggio con la Orchestra Morphine, poi con il nuovo gruppo Twinemen che merita senz'altro un ascolto attento.


"I got a head with wings
And I can see so far away, I can see so clear
You would not believe the view up here
I got a head with wings"

giovedì 11 agosto 2011

new mutant


mi ricrederò su Tintin?

In attesa del film di animazione di Steven Spielberg "Le avventure di Tintin: il segreto del liocorno", in uscita in autunno, Rizzoli Lizard sta riproponendo in libreria e fumetteria tutta la serie del personaggio di Hergé in una nuova edizione cartonata "definitiva" (ultimamente si dice così, almeno fino all'edizione successiva che quasi certamente avrà una "nuova traduzione", come questa - e  per la gioia del traduttore dell'edizione precedente spesso additato come un demente semianalfabeta).
Quattro volumi già usciti a fine giugno scorso, e gli altri quattro in uscita in ottobre, per ristampare tutta la serie, inclusi il primissimo libro "Tintin nel paese dei Soviet" del 1929, quasi una versione "demo" della famosa ligne claire che diventerà marchio di fabbrica di Hergé e di buona parte del fumetto franco-belga, e l'ultimo incompiuto "Tintin e l'Alph-Art" del 1983. Ventiquattro storie in tutto che hanno fatto la storia del fumetto, a un buon prezzo: 14,90 eurini per otto, i conti fateli voi che a quest'ora non ce la faccio.

Ora, se posso dirlo, a me Tintin è sempre stato cordialmente sulle balle. Mi è sempre parso il classico personaggio saputello che la sa troppo lunga per i miei gusti, e che non manca di fartelo notare appena può. Un po' come Topolino o Superman, via: famosi e rispettati, ma trovatemene uno che non preferisce loro Paperino o l'Uomo Ragno, imperfetti e un po' sfigati come noi. E anche Hergé, con quelle ombre di collaborazionismo coi nazisti durante la guerra, non mi ha mai ispirato granché.
Ma, come spesso mi capita, so di avere dei pregiudizi e di aver spesso sparato critiche senza conoscere bene l'argomento (dai, ammettiamo che a volte è bello farlo!). Ho quindi intenzione di approfittare dell'occasione che mi offre Rizzoli Lizard e di rimediare alla mia ignoranza. Il primo volume è sul mio comodino, vi saprò dire se mi farà cambiare idea.

domenica 31 luglio 2011

Dio esiste: "Fantastic Four" di Lee & Kirby torna in edicola.

La benemerita (almeno in questo caso) Panini Comics da circa un anno ci sta riprovando con le ristampe da edicola di classico materiale Marvel degli anni '60. Dopo anni di insuccessi l'editore modenese sta cercando in qualche modo di sfruttare la scia dei film che proprio in questi mesi stanno riportando in auge personaggi legati al mondo Avengers per far uscire "Marvel Collection", una testata mensile che ha finora proposto in cicli di 4 numeri albi proprio di Capitan America, Thor e proprio i Vendicatori.
Ora è il turno di Fantastic Four, finalmente. Si, perchè le storie dei Fantastici Quattro di Stan "the man" Lee e Jack "the king" Kirby (con Joe Sinnott: inchiostratore di importanza fondamentale con cui iniziò il salto di qualità) sono quanto di più marvelliano sia mai stato pubblicato: nel senso di "tipico Marvel", essendo queste storie vecchie di 45 anni l'essenza stessa della golden age della casa editrice newyorkese, con tutti i personaggi e le trame su cui si sono basate le storie dei decenni successivi (a parte i 4, cito solo gli Inumani, Galactus, Silver Surfer, il Dottor Destino, Namor, Pantera Nera, Klaw... basta così?). Ma anche per il senso di meraviglia e stupore che ancora oggi queste storie suscitano nel lettore: certo, i dialoghi del vecchio Stan sono invecchiati maluccio, ridondanti e ingenui come molte delle trame se facciamo un paragone con lo stile odierno, ma basta ammirare i disegni di Kirby per lasciarsi trasportare in un mondo fantastico fatto di alieni, mostri, tecnologia avveniristica, universi paralleli e buchi spaziotemporali.

Lee e Kirby hanno saputo creare con i loro supereroi un universo entrato ormai nell'immaginario collettivo, così come fece Carl Barks con i suoi paperi disneyani: un mondo fantastico e allo stesso tempo credibile, popolato di eroi che sono persone come noi e con cui per questo ci possiamo identificare. Un mondo che oggi, grazie soprattutto all'industria cinematografica hollywoodiana, fa parte della quotidianità di diverse generazioni: si pensi ai film sui Fantastici Quattro, certo, ma anche Spiderman, Iron Man, X-Men, Devil, Hulk e, proprio in questi mesi, Thor, Capitan America e prossimamente i Vendicatori. Risultati altalenanti, certo, ma in generale ottime produzioni (tranne quella su Devil, davvero orripilante) dal budget elevato e con cast di tutto rispetto.
Continuo però a pensare che noi che negli anni 70 abbiamo scoperto questo mondo direttamente sulle pagine di coloratissimi fumetti siamo decisamente più fortunati: rileggere oggi quelle storie me ne da la conferma. Per questo spero che stavolta questa iniziativa editoriale duri nel tempo e che ci dia l'opportunità di rileggere ancora decine e decine delle storie classiche con cui sono cresciuto: la passione dei redattori di Panini, direttore Lupoi (grandissimo appassionato del Quaartetto) in testa, è in questo caso buona garanzia se non di riuscita almeno di caparbietà. Non voglio credere che la (temporanea?) chiusura dell'analogo esperimento con le ristampe di Marvel Team Up sia un cattivo segnale in tal senso...
Per dirla con Stan Lee: 'NUFF SAID!

PS. Per gli appassionati di Jack Kirby (che già lo sapranno, se no che appassionati sono!), segnalo l'uscita italiana del volume "Jack Kirby, King of Comics" curata delle Edizioni BD. Imperdibile.

martedì 26 luglio 2011

sogni d'oro a tutti


Floating far above the cloud
Sinking far below the ground
No form only my senses remain

martedì 19 luglio 2011

another ZZ night

L'altra sera sono tornato a vedere gli ZZ Top in concerto, un anno dopo la mia prima esperienza live con i barbuti a Vigevano, quello che definii il mio concerto dell'anno 2010 (e da cui sono tratte le foto di questo post). Stavolta suonavano a Barcellona, nella piazzetta del Poble Espanyol: mi chiedevo come potesse essere un concerto qui, io che ricordavo questo fintissimo paesino costruito ad hoc per i turisti come piccolino e molto kitch. Quest'anno ci ha suonato Dylan, per dire, e ci è tornato il carrozzone del Primavera Sound, che proprio al Poble Espanyol aveva mosso i primi passi più di un decennio fa. In effetti non è male, devo dire: capienza giusta per concerti di questa portata, persino un suo fascino se ben illuminato, pacchiano il giusto per gente abituata a cappellacci e paillettes se pure in salsa western come i Nostri. Da "Viva Las Vegas" a "Visca el Poble Espanyol" il passo può essere breve, insomma.
Stendendo un velo pietoso sul gruppo spalla, ecco dunque le mie barbe preferite a iniziare alle 22 in punto la loro lezione di blues rock texano: poche le sorprese in una scaletta che ricalca quasi esattamente quella del tour dello scorso anno e in buona parte quella del paio di DVD live pubblicati ultimamente. Ma va benissimo così: partenza a razzo con "Got me under pressure" e poi subito la doppietta "Waiting for the bus"/"Jesus just left Chicago". Dusty Hill e Frank Beard, l'unico dei tre che la barba ce l'ha nel cognome e non in faccia, scandiscono la ritmica in modo perfetto, mentre Billy Gibbons, colui che quarant'anni fa un certo Jimi Hendrix incoronò suo erede, alterna assoli da brivido a pezzi ritmici come probabilmente non ho mai visto fare da nessuno. Non importa che il brano più recente che hanno fatto risalga al '92 ("Pincushion", da "Antenna"): oscilliamo tra i Settanta ("Just got paid", "Brown sugar", "Cheap sunglasses", "I'm bad, I'm nationwide") e gli Ottanta che diedero loro il successo mondiale (la triade "Gimme all our loving", "Sharp dressed men" e "Legs" con tanto di chitarra e basso ricoperti di pelo bianco) e non potrremmo chiedere di più. Una canzone che non conosco, se è un assaggio dal tanto atteso nuovo album prodotto da re mida Rick Rubin, non promette nulla di buono, e tutto sommato anche la cover di "Hey Joe" non ci sta granchè bene. Per il sottoscritto il top della serata è stato il lentaccio "I need you tonight" con un assolo di Billy G di oltre un minuto fatto con la sola mano sinistra (recuperare video di youtube per credere): mi sarei aspettato "Blue Jean blues" ma è stato pure meglio.
Dopo l'immancabile bis di "La Grange" e "Tush" vado a casa ancora una volta soddisfatto, resistendo chissà perchè all'acquisto della maglietta. Saranno anche dinosauri fuori dal tempo, reazionari sudisti tutti immersi nella mitologia "donne e motori", ma al diavolo: di musica così non se ne fa più. Trovatemi un gruppo gggiovane che salga sul palco con questa classe, questa perizia tecnica messa al servizio delle canzoni, senza mai una nota di troppo e con questa modestia e bonaria simpatia.
Chitarra, basso batteria e barbe: long live ZZ Top, gente.