martedì 28 giugno 2011

Vasco Rossi appende l'ugola al chiodo

Per parafrasare Igor in Frankenstein Jr.: "Ugola? Quale ugola?"

Insomma gente, la notizia del giorno, in mancanza di qualcosa di meglio, è il presunto ritiro del Blasco nazionale (quello ignorato dai media fino a quando non ha iniziato davvero a fare musica urenda, e da allora idolo dei Mollica e dei Luzzattifegiz) dal rock, o dai concerti, o dai tour organizzati, o dalla musica addirittura! A parte che le frasi pronunciate dal "rocker di Zocca" (ah quanto mi piace!) sono a dir poco sibilline, e a parte che dalla musica si era ritirato già da qualche anno, la notizia ha avuto ampio spazio sui media nazionali, notoriamente attenti alla musica di qualità e alle ultime tendenze musicali, ed è stata seguita dal panico dei fans. Non disperate, amici vascomani! "Mi ritiro da rockstar" può voler dire molte cose: che faccia un disco di cover del Quartetto Cetra, ad esempio, o che si dia alla sceneggiata napoletana, o che parta in tour con i Tenores de' Bitti. C'è ancora speranza.

Vasco Rossi, come per molti italiani, è stato il mio primo amore musicale. Conoscevo tutte le canzoni a memoria, e per anni ho letteralmente sfrantegato i maroni ad amici e parenti (cantare "Fegato fegato spappolato" alla nonna faceva molto punk, nei miei sciagurati e ridicoli 15 anni, e la nonna mi guardava e se la rideva) e il concerto di Vasco è stato il mio primo happening musicale: Arena di Milano, 1989, tour di "Liberi liberi". Vidi anche "Ciao ma'" al cinema coi compagni del liceo, e ammettetelo, ci è voluto un gran bel coraggio. Poi, nel 1990, ho scoperto i Velvet Underground e la mia vita non è stata più la stessa.
Non voglio fare lo snob, e dire che "da quando ho scoperto la musica vera non ho più ascoltato Vasco". È vero, intendiamoci. Ma non è che non l'ho più ascoltato perchè ho scoperto la musica vera nel senso che la sua non lo era, semplicemente non l'ho più ascoltato perchè lui ha smesso di fare cose decenti. Certo, io ho cambiato gusti e "mi sono evoluto", ma dai, ammettiamolo: Vasco si è musicalmente rincoglionito da almeno due decenni (ma anche prima... no dico: "Ciao ma'"!!!). Qualche canzone decente qua e là, ma il livello generale è crollato in picchiata, in misura uguale e contraria all'entità del suo conto in banca e al numero di fans e di pseudogiornalisti pseudomusicali che gli sono andati in scia.
I fans naturalmente non lo ammetteranno mai, anche se lo sanno benissimo anche loro. Mi aspetto una serie di insulti sul blog (capitò parlando - bene! - di Roger Waters, figuriamoci se non capiterà ora) ma dai: uno che fa quella cover di Creep non è difendibile, non più, e ancor meno lo è chi fa un disco come il suo ultimo ("eh già, sembrava la fine del mondo ma sono ancora qua,
ci vuole abilità, eh, già": vogliamo parlarne? anche no).
E ai fans torno a dire: Vasco è stanco e imbolsito ma mica scemo. Concerti ne farà ancora, e sicuramente farà dischi. Speriamo che il maggior tempo libero gli faccia tornare la voglia di musica, quella buona, quella vera. E se no amen: continueremo ad ascoltarci "Colpa d'Alfredo" come, fatte le debite proporzioni, degli Stones mettiamo su "Beggars Banquet" e non certo "Steel Wheels".

R.I.P. Gene Colan

Poche ore fa ci ha lasciati Eugene "Gene" Colan, storico disegnatore della Marvel Comics che ha legato il suo nome a supereroi degli anni 60 e 70 come Iron Man, Capitan America e Daredevil.
Per me, che ho sempre schifato l'Uomo di Ferro e Cap (almeno fino a tempi recenti), il vecchio Gene era soprattutto Devil, il Devil di quando io ero un piccolo divoratore di fumetti: quello sghembo, storto, dai tratti deformati, che combatteva di notte contro nemici assurdi e spesso imbarazzanti quali Stilt-Man, il Gufo, Mister Hyde, il Gladiatore, lo Scarabeo, persino L'UOMO-RANA (dio!!! perché, Stan??). Quello fidanzato con Karen Page a cui rivelò la sua identità segreta e che poi, dopo il comprensibile crollo della bella Karen (che non si sarebbe più ripresa, la poveretta), si mise a saltellare tra i tetti di Hell's Kitchen con l'intrigante Vedova Nera (mai capito che poteri avesse, a parte quei bracciali spara-cose, ma di sicuro era una gran gnocca).
Uno stile di disegno inimitabile il suo, nero, oscuro, in cui i corpi sfidavano la legge di gravità, che diede spessore al personaggio del Cornetto ben prima che arrivasse Frank Miller e lo rendesse definitivamente adulto. E noi con lui.
E allora buon viaggio vecchio Gene, e chissà che la tua morte (ahimé) non sia l'occasione per i tipi pigri di Panini di ripubblicare il tuo vero capolavoro: quel "Tomb of Dracula" con testi di Marv Wolfman di cui disegnasti tutti i 70 numeri dal 1972 al 1979. In Spagna si trova in una splendida ristampa da mesi; in Italia, come spesso accade, no.
Rest in peace, e salutaci Karen Page.

domenica 19 giugno 2011

I La Crus raddoppiano, e io mi sento meno solo

I La Crus sono stati probabilmente il gruppo italiano che più mi ha appassionato musicalmente e che più attraverso i testi delle proprie canzoni ha saputo descrivere me e i momenti della vita che ho vissuto negli ultimi 15 anni. Spesso sono arrivato a pensare che mi conoscessero meglio di quando non mi conoscessi io, tanto era impressionante la loro capacità di interpretare sempre i miei stati d'animo; infine, a coronamento di questo "nostro" percorso comune, si sono sciolti nel 2008, proprio quando avrebbero dovuto, quasi a segnare definitivamente il distacco che anch'io stavo vivendo.
Dopo un'estemporanea reunion sul palco dell'ultimo Sanremo, dove hanno proposto con successo quella "Io confesso" che in realtà già era lavoro solista di Mauro Ermanno Giovanardi, i due principali componenti del gruppo sono recentemente usciti con i loro rispettivi album solisti, tra conferme e piacevoli sorprese.

La conferma è "Ho sognato troppo l'altra notte?" di Mauro Ermanno Giovanardi, che può a un primo ascolto rappresentare la continuità col passato sopratutto grazie all'espressività della sua inconfondibile e caldissima voce. Un album pieno di spunti, un paio di cover ("Bang bang", cantata con Violante Placido, e "Solitary man", entrambe proposte nella versione italiana), un taglio cinematografico ancor più accentuato del solito, molti archi e suggestive tinte sixties.
La sorpresa è invece il primo album omonimo di Cesare Malfatti, davvero bello. Dico sorpresa non perché avessi dubbi sulle capacità di Cesare, che é stato artefice del sound dei La Crus almeno quanto Joe, ma piuttosto perché non pensavo a un esordio così immediato come solista, immaginandomelo piuttosto impegnato come produttore o in progetti paralleli come quello coi Dining Rooms. Invece, suonando tutti gli strumenti e sfoderando una voce timida ma sicura, Malfatti sforna 11 canzoni delicate e personali, caratterizzate da una strumentazione perlopiù acustica superbamente arrangiata e con testi sempre profondi, colti e introspettivi: a ben vedere i due terzi dei La Crus sono qui, dato che le parole sono firmate da quell'Alessandro Cremonesi che del gruppo milanese é stato la terza colonna nascosta. Tutte le canzoni dell'album si possono ascoltare in streaming qui, dove trovate anche tutti i testi. Chiudete gli occhi e lasciate che questa musica matura e intensa vi entri dentro in punta di piedi e vi faccia compagnia come solo i cari amici riescono a fare: quelli con cui potete permettervi di essere tristi e allegri, senza finzioni, e con cui riuscite ad essere voi stessi.

Mentre l'album di Joe si trova comodamente in tutti i negozi di dischi, e anzi ha goduto di un battage pubblicitario notevole da parte della sua major  discografica, il cd di Cesare si può per ora ordinare solo direttamente a lui, scrivendo una mail all'indirizzo cesare.malfatti@gmail.com, e arriva a casa in una splendida confezione numerata, personalizzata e cucita a mano: un altro motivo per non farselo sfuggire. Passate parola.

Merita un commento particolare il legame che Joe e Cesare mantengono con il loro pubblico. Entrambi hanno un profilo Facebook in cui mantengono un rapporto attivo con amici veri e virtuali, commentando e interagendo personalmente con tutti in maniera davvero inusuale; questo dà bene l'idea dell'umanità e della "normalità" che i due hanno mantenuto con il passare degli anni (lo stesso capita ad esempio con un altro monumento della musica indie italiana: Cristina Donà).

Chapeau, e grazie per non avermi lasciato solo per troppo tempo.

giovedì 2 giugno 2011

Primavera Sound 2011: tercer día

Il terzo giorno é stato il più lungo e il più intenso, iniziato già alle 4 e mezza del pomeriggio con… una coda. L’organizzazione è riuscita a complicare anche i concerti dell’Auditori, con un sistema piuttosto demenziale di “micro-prenotazione”. In pratica si potevano prenotare i biglietti ma solo all’apertura dei cancelli lo stesso giorno dell’evento. Quindi: concerto di John Cale alle 17.45, apertura porte ore 16.30 (ma ritardata di 10 minuti, conseguenza: coda), necessità di recarsi al botteghino oltre l’area ristorazione (5 minuti a piedi), altra mega-coda fatta solo per scoprire che i biglietti erano già esauriti! La scoperta successiva è che comunque si può provare ad entrare all’Auditori anche senza prenotazione (e senza pagare i 2 € relativi). Quindi: uscire di nuovo dal recinto, fare un’altra coda serpentinosa ed entrare in una sala… mezza vuota! Mah. Ma non importa, ero talmente carico quel giorno che avevo deciso di non portarmi neppure la macchina fotografica per evitare distrazioni... Motivo per cui non vedrete mie foto dei gruppi in programma il terzo giorno.
Ma torniamo a John Cale, che ha suonato per intero il capolavoro "Paris 1919" (in kilt!) per poi proseguire con pezzi nuovi (brutti) e molto vecchi, ripescando dal repertorio chicche dimenticate (“Hedda Gabler”) e rese molto bene con l’apporto di un’orchestra di 16 elementi; peccato per il mancato bis di “Gun/Pablo Picasso” che fece a Brescia, ma la conclusione di “Captain Hook”, da sempre una delle mie canzoni preferite di “Sabotage”, è stata spettacolare.
Subito dopo al Sant Miguel c’era uno dei gruppi gggiovani più attesi, i Fleet Foxes, che sono proprio bravini. Non esattamente il mio genere, con quei passaggi tra coretti sixties resi perfettamente anche dal vivo ma tendenzialmente da orchite, alternati a passaggi più ritmati e percussivi.
Alle 21.15, quando molta gente si è spostata al palco Llevant a vedere la finale di Champions Barça-United sugli schermi allestiti per l’occasione, noi ci siamo piazzati sotto il palco Ray-Ban su cui gli Einstürzende Neubauten hanno marcato la differenza tra gruppo “bravo” e gruppo “monstre”. Ragazzi, parliamoci chiaro: come loro non c’è nessuno, e ogni concerto è un happening di lamiere, tubi, fusti di plastica, trapani, turbine di jet, un tappeto sonoro e visuale straordinario su cui si poggiano il basso del canottierato Alexander Hacke (che sembra appena uscito da un film porno tedesco degli anni 80) e la voce del dio Blixa. Tra “The Garden” e il bis “Redukt” (e in mezzo tra le altre “Sabrina”, “Haus der Lüge” e una devastante “Headcleaner”), un gruppo in grandissima forma a cui è stata strettissima l’ora e un quarto di concerto. Probabilmente il mio gruppo preferito di tutti i tempi (l’ho detto).

Più difficile parlare del concerto di PJ Harvey. Lei resta senza dubbio uno di quei personaggi di caratura superiore, e si vede, ma l’ultimo album (che viene ripreso quasi per intero) e i due precedenti non sono tra i miei preferiti: preferivo la Polly rockera e sguaiata con chitarra elettrica a tracolla a questa, vestita di bianco virginale e con cofana fiorata Björk-style, che imbraccia un cacchio di pseudo-chitarra dall’aria medievale (aveva ragione Tommy: è l'autoharp). Grande interpretazione, intendiamoci, ottimo gruppo capitanato dall’omonimo Mick Harvey (e con lui la reunion virtuale dei Bad Seeds storici è completa, dopo Nick  giovedì e Blixa poco prima), e quando partono “C’mon Billy”, “Angeline”, “Meet Ze Monsta” e “The Sky Lit Up” si respira l’aria dei tempi che fu. PJ è un'Artista con la A maiuscola. Ma…
Purtroppo mi è toccato perdermi Dean Wareham, che a dire di molti è stato protagonista uno dei migliori act del festival. L’ubiquità ancora non è di questa terra. Sotto quindi con quello che prevedevo sarebbe stato un finale degno di cotanti tre giorni: il concerto della Blues Explosion. Che dire? La solita ora e un quarto che vale per tre, un remix live di canzoni e frammenti di canzoni fuse tra loro a un ritmo impressionante, tra urla belluine, mossette da Elvis in salsa punk e sudore a fiumi (that’s the sweat of the Blues Explosion!). Jon Spencer, Russel Simins e Judah Bauer dal vivo restano anche a distanza di anni un’esperienza straordinaria, ed è stata una soddisfazione personale vedere lo stupore ammirato dell’inizialmente scettico Pinux (che non essendo ubiquo nemmeno lui ha dovuto scegliere tra JSBX e Mogwai, e ha scelto bene). E stavolta si è unito al trio anche Money Mark, già che c’era. Per dire il livello.

Il tempo di stravaccarsi su una sedia per un pezzo di pizza, di intravedere 30 secondi di Animal Collective (bleah), e si può dichiarare chiusa questa edizione del Primavera. Si, perché ci sarebbero stati ancora i Mercury Rev al Poble Espanyol domenica, ma il fisico proprio non ce l'ha fatta, per quest’anno ya está.

Ho letto il lunedì sul giornale che quest’anno sono passate dal Fòrum 120.000 persone distribuite nei tre giorni, record assoluto di presenze per un Primavera Sound che è ormai il festival per eccellenza del panorama indie rock europeo. Se l’anno prossimo riusciranno a farci comprare anche delle birre senza troppi casini, sarà davvero il massimo. Lunga vita al Primavera Sound (e alle nostre schiene doloranti).





mercoledì 1 giugno 2011

Primavera Sound 2011: segundo día

Il secondo giorno di festival é, sulla carta, il meno attraente per il sottoscritto: suonano fior di gruppi ma le mie passioni musicali sono maggiormente concentrate negli altri due giorni.
Iniziamo presto: decidiamo di ripetere l'esperimento riuscito di venire in macchina e dopo un pranzo (tardivo: ci siamo svegliati all'una dopo la lunga nottata precedente, ancora pieni dei coriandoli e delle stelle filanti dei Flaming Lips) al chiringuito sulla spiaggia, e verso le 5 siamo già a timbrare il cartellino.
Inizio soft: Avi Buffalo (bravini) e Monochrome Set (divertentini, ma dopo tre o quattro canzoni iniziano a sfrantecare la mentula) e qualche canzone di M Ward (bravo, davvero, nel suo essere "classico"), poi seguo l'entusiasmo incontenibile dei miei compari al palco Llevant dove sono di scena i National. "Purtroppo" devo ripetere il giudizio dato dopo il concerto milanese di qualche anno fa: bravissimi, stilosi, con un repertorio di ottime canzoni, ma. Ma a me manca qualcosa: non riescono ad accendermi la passione. Il concerto mi é piaciuto, a tratti anche tanto: ma alla fine non mi prende la smania di andarmeli ad ascoltare su disco, e per come sono fatto io non é un buon segno. Sul palco sale anche Sufjan Stevens in un paio di brani, così alla fine possiamo bullarci di aver visto anche lui.
Poi, di corsa (per quanto mi permette il mio piede di nuovo dolorante) a vedere i Belle & Sebastian: la lontananza dei due palchi ci fa perdere la prima canzone, arriviamo a metà di Cuckoo e scattano i coretti. Prima cosa che notiamo: il volume basso e l'aumento di peso di Stevie Jackson, improvvisamente ciccione. Suart Murdoch, lui ormai è sempre più fighetto e piacione. Scaletta in parte insolita, che pesca poco dall'ultimo Álbum e molto da "Dear Catastrophe Waitress" e dal passato, concludendosi nientedimenoché con "Judy and the dream of horses" e "Sleep the clock around". Bravi come sempre, forse ormai un po' troppo scontati, o sarò io che li ho visti troppe volte per riuscire a stupirmi ancora?

Il tempo di riposare un po' le stanche membra, seduti a sentire qualche pezzo degli Explosions in the Sky (scelti perchè somigliano ai Mogwai, che sappiamo già che non vedremo il giorno successivo), e andiamo a prendere posto per l'evento della serata: il primo concerto dei Pulp dopo 10 anni di separazione. L'attesa non sarà tradita, con Jarvis Cocker mattatore assoluto e che conferma l'ottima impressione fatta due anni fa sullo stesso palco (ma allora la birra sponsor era l'altra): voce da brivido, movenze divine, discorsi intelligenti, carisma da vendere. Un figo spaziale, molt maco, come direbbero qui. E le canzoni dei Pulp che non hanno perso il loro smalto. senz'altro uno degli apici assoluti del festival.
Raccolgo il mio piede, timbriamo il cartellino d'uscita e ci avviamo alla macchina, come una combriccola di vecchietti malandati: chi ha mal di schiena, chi l'allergia, chi - io - un coltello piantato nel malleolo. È un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo.



(... continua...)