sabato 31 dicembre 2011

er mio mejo musicale der 2011

puntuale come non mai, eccomi a frantumarvi gli zebedei con le mie classifiche del 2011, consapevole che a pochi interesserà sapere quali sono i ciddì che più hanno vorticato nel mio lettore nel corso di quest'anno che si chiude oggi senza molto rimpianto.

Vi sparo lì tra capo e collo i 10 album dell'anno, in ordine alfabetico che non me la sento di riordinarli.

- THE BLACK KEYS: El Camino
- CRISTINA DONA': Torno a casa a piedi
- FEIST: Metals
- MAURO ERMANNO GIOVANARDI: Ho sognato troppo l'altra notte?
- GIRLS: Father, Son, Holy Ghost
- P.J. HARVEY: Let England Shake
- PRIMUS: Green Naugahyde
- TOM WAITS: Bad as Me
- THE WALKABOUTS: Travels into Dustland
- WIRE: Red Barked Tree

 

C'è un po' di tutto: grandi ritorni di amici di vecchia data (Tommasino Aspetta che ne ha sfornato un altro dei suoi, i Primus che anche se non hanno pubblicato un capolavoro sono tornati a farmi muovere la gambuccia e tanto mi bastava, gli adorati Walkabouts dopo 7 anni), italiani a ottimi livelli (gli album di Giò e di Cristina Donà sono tra i migliori della loro carriera), "nuovi" astri del firmamento musicale (Feist e i Girls, davvero a livelli altissimi), Polly Jean che fa storia a sè con un lavoro atipico che è cresciuto enormemente alla lunga distanza, e un paio di mie scoperte recenti (i Black Keys che dopo "Brothers" hanno pubblicato una raccolta di canzoni più "pop" ma non per questo inferiore, e i mostri sacri Wire, che il dio del rock ce li conservi in questo stato).
Se devo dirla tutta, i Girls e Feist se la sono giocata negli ultimi mesi per il gradino più alto del podio, coi primi in leggero vantaggio; poi sono arrivati i Walkabouts e hanno vinto allo sprint. L'album dei Black Keys è l'ultimo arrivato e mi sta dando soddisfazioni, ma è arrivato troppo tardi per raggiungere i vincitori. Disco dell'anno 2011 è per me, quindi (rullo di trombe e squillo di tamburi): TRAVELS IN THE DUSTLAND dei grandissimi WALKABOUTS.

Alcune menzioni d'onore per gli esclusi: citerei innanzi tutto CESARE MALFATTI come sorpresa dell'anno, e "premio della critica" (haha) per la cura in cui ha confezionato il prodotto e ha mantenuto i contatti con lo zoccolo duro dei fans dei La Crus. Appena fuori dai 10 il secondo album dei BIG SEXY NOISE, ovvero Lydia Lunch insieme ai Gallon Drunk: grezzissimo come il primo, e passato quasi sotto silenzio. Poi due dischi "acustici" (o quasi) di due alfieri dell'elettricità quali J MASCIS e THURSTON MOORE (a proposito: la separazione tra Moore e Kim Gordon è stata la notizia più luttuosa dell'anno), e JOAN AS POLICE WOMAN che si è alleggerita e ha fatto un disco molto gradevole. Dai WILCO e da MALKMUS mi aspettavo qualcosina in più, come dagli italiani DENTE e ZEN CIRCUS. I FALL, indiscussi campioni del 2010 per il sottoscritto, se ne sono usciti con un ennesimo album un po' troppo uguale agli ultimi 3 o 4 e sicuramente inferiore all'ultimo; ma probabilmente tra qualche mese starò qui a dire che capolavoro era. Il debutto di ANNA CALVI, idolatrato dai più e che pure mi è piaciuto, mi ha stancato presto... Bello invece 5, il ritorno dei LAMB dopo parecchi anni di silenzio, così come il primo disco solista di DAVID LOWERY (leader di Cracker e Camper Van Beethoven - chi non conosce questi ultimi, peste lo colga!).

In ambito riedizioni, raccolte e live, sicuramente primo l'agognato cofanetto delle "SMiLE Sessions" dei BEACH BOYS: con soli 45 anni di ritardo possiamo ascoltare il capolavoro scomparso (versione doppio cd). Purtroppo non ho ancora ascoltato la reissue di Some Girls degli Stones e non mi pronuncio; splendida invece l'operazione recupero di tutto il catalogo dei JESUS AND MARY CHAIN, ogni album riproposto con un cd di outtakes varie e un dvd. Il mio live preferito è senz'altro "Bestival 2011" dei CURE: la cronaca di un concerto perfetto, con il ritorno delle tastiere di Roger O'Connell. Beato chi c'era, e soprattutto beato chi era al ciclo di concerti "Reflections" in cui il gruppo di Robert Smith ha rifatto per intero i primi tre album, col temporaneo rientro in quadra nientedimenoche di Lol Tolhurst daopo 22 anni. Inserisco in questa categoria anche "Soul Time!" della fantastica SHARON JONES coi suoi DAP-KINGS, dato che si tratta di una raccolta di brani introvabili sui suoi precedenti album. La James Brown in gonnella dei nostri giorni?

Musica dal vivo ne ho vista molta, come al solito. A parte il Primavera Sound, in cui hanno svettato Jon Spencer Blues Explosion, Einstuerzende Neubauten, Grinderman e Pulp tra gli altri, cito il magnifico concerto barcellonese di PAOLO CONTE, il ritorno delle THROWING MUSES all'Apolo, e MICAH P. HINSON che ha rifatto i Pixies alla sua maniera.

Le canzoni dell'anno, a bruciapelo, sono tre: VOMIT dei Girls, THE ART OF ALMOST dei Wilco e LONELY BOY dei Black Keys (con il video più trascinante dell'anno), tutta roba che ti entra in testa e non se ne va più.

Voilà!

venerdì 30 dicembre 2011

21 anni nel Mucchio

Ho iniziato a interessarmi al rock e alla musica in generale in maniera più consapevole nell'estate del 1990, anno della maturità scientifica, grazie soprattutto ad alcuni compagni di classe che ne sapevano più di me e mi facevano "le cassette", e ad alcune trasmissioni radiofoniche ormai estinte (do you remember Stereonotte?). Ma non mi bastava, avevo bisogno di qualcosa di più "organizzato" e fu così che mi diedi alla lettura di riviste specializzate: Buscadero (poco), Rockerilla, Velvet, in seguito Rumore. Tutte abbandonate col tempo, tranne una: il Mucchio Selvaggio (per gli amici semplicemente "il Mucchio"), di cui non ho perso un numero da allora.
In particolare ricordo ancora oggi il primo acquisto: novembre 1990, la banana dei Velvet Underground in copertina, l'edicola di via Castelbarco di fronte a quello che ancora si chiamava "City Square" e che da lì a poco mi avrebbe visto spettatore del mio primo concerto "serio": i Violent Femmes.
Col Mucchio iniziai a conoscere cantanti e gruppi che non avevo mai sentito nominare, generi musicali sconosciuti, strumenti strani, storie incredibili:
mi si aprì un mondo magnifico che non pensavo potesse esistere. L'accoppiata Mucchio/noleggio cd mi diede "lavoro" per anni, e fu così che scoprii Tom Waits, Julian Cope, Nick Cave, i Clash, i Depeche Mode, i Pixies, le Throwing Muses, i Primus, Siouxsie and the Banshees, insomma moltissima della musica magnifica che da allora scandisce le mie giornate. E insieme a quella scoprii altro: cultura, libri, film. La politica quella no, ancora sulle pagine del Mucchio ce n'era poca, soprattutto se paragonata a quello che venne dopo.
Fu durante il servizio civile sulla riviera del Brenta, nel '97, che mi abbonai per la prima volta: il primo anno fu in comproprietà con l'amico Checco. Da allora la mia copia è sempre arrivata in casella, mai perso un numero, neppure oggi che vivo a Barcellona e che il Mucchio rappresenta persino di più: un amico lontano, una certezza che mi aspetta a casa al mio rientro.

Le firme del Mucchio mi divennero col tempo familiari e imparai a distinguere i gusti di ciascuno dei redattori, e a fidarmi più di alcuni che di altri: più di Guglielmi, Cilìa, Cico Casartelli, Mongardini, Vignola, ad esempio, che di Carlo Villa e della sua passione per "la terra d'Albione". Villa che vedevo settimanalmente da Supporti Fonografici, negozio in Porta Ticinese di cui era proprietario; Eddy Cilìa a cui una volta spedii un raro cd di Mark Eitzel che gli mancava. Molti altri a cui mi affezionai: ricordo i tempi in cui ci scriveva Roberto Giallo alias Alessandro Robecchi, e Andrea Scanzi che adoravo, e persino quell'impresentabile di Pierluigi Diaco. E ricordo le interviste a Magnus in un periodo in cui i fumetti erano roba per bambini, il "mio Magnus" che - scoprii - aveva disegnato persino un omaggio alla rivista in occasione del suo decimo anniversario.
Ma il Mucchio era soprattutto Max Stèfani, indubbiamente: fondatore e anima della rivista fin dal primo numero anni e anni prima, sosteneva da sempre la baracca con la sua indubbia personalità e la sua verve polemica che emerse sempre più forte col passare del tempo, via via che diminuiva il suo coinvolgimento diretto e attivo alla parte musicale della sua creatura.
Le cose cambiarono con gli anni: prima il Mucchio settimanale, "esperimento" durato parecchi anni, poi il ritorno alla mensilità con un deciso cambio di direzione, soprattutto per la parte extra-musicale che si ampliò notevolmente trattando spesso temi scottanti e trasversali (ricordo con piacere un'intervista ad Antonino Caponnetto, tra le tante degne di nota). E poi gli approfondimenti del Mucchio Extra, davvero ben fatti e necessari in tempi come i nostri in cui le notizie sono sempre più rapide e superficiali, e i vari speciali a tema. E quanti concerti visti gratis quando ero studente e il settimanale arrivava puntuale il lunedì, un giorno prima dell'uscita in edicola, con i suoi concorsi stile "il primo che chiama vince"!

Oggi il Mucchio è in difficoltà. Max Stèfani non c'è più, se n'è andato o l'hanno cacciato, chissà, e la guida del giornale è nelle mani di Daniela Federico e di una redazione capace che sta continuando a mantenere il livello molto alto: Guglielmi, Bordone, Cilìa, Vignola, Castelli, Pasini, Besselva Averame, Del Papa, Raugei, Ivic, altri ancora. Molte polemiche tra le due "fazioni" si sono potute leggere ultimamente su Facebook, e onestamente le ho trovate quasi sempre eccessive e non degne del nome degli interessati. Ho la mia opinione, naturalmente, ma in questo contesto me la tengo per me perchè ora non ha nemmeno tanta importanza stabilire chi è il buono e chi il cattivo. Il punto è un altro: il Mucchio rischia di chiudere dopo trentacinque anni, soprattutto a causa delle nuove norme in materia di finanziamenti pubblici ai giornali.
Perdere il Mucchio vorrebbe dire perdere una voce libera, un'autorità in materia musicale e non solo; un cervello capace di pensare fuori dal coro, e di questi temi non è poco. Io personalmente perderei un pezzo della mia vita lungo 21 anni, una bella fetta di quello che sono diventato, e una certezza per il futuro dato che non stiamo certo parlando di una rivista agonizzante ma al contrario viva e vispa come ai tempi migliori.
Non voglio che il Mucchio chiuda. Per questo oggi ho rinnovato il mio abbonamento con la formula "sostenitore", perchè agli amici bisogna dare una mano nel momento del bisogno. Se avete a cuore il destino di questo giornale e dell'informazione libera in un paese disastrato come il nostro, andate su www.ilmucchio.it e abbonatevi anche voi. Non ve ne pentirete, ne sono sicuro.

lunedì 26 dicembre 2011

Shopping milanese: 2) per regali di Natale

Tripla visita in fumetteria, a questo giro, anche se forzatamente breve causa tour de force natalizio: una scappata alla Borsa del Fumetto e due velocissime ai due Supergulp (bravi i ragazzi della sede sul Naviglio che tengono aperto fino a mezzanotte!) hanno fruttato qualche volume interessante che chissà quando riuscirò a leggere e qualche regalino di Natale per gli amici con la mente più aperta.
In occasione di ricorrenze importanti sono solito regalare "Maus" a qualche amico, di solito il classico scettico sui fumetti o che "non li ha mai letti": vuoi perché effettivamente non fanno parte delle sue letture abituali, vuoi per quello snobismo tipico di chi sotto sotto pensa che i fumetti siano roba da bambini o da ritardati mentali. Chi riceve il regalo state pur certi che cambia idea.
Quest'anno non avevo amici a cui regalare "Maus": l'unica papabile, appartenente alla prima delle due categorie di cui sopra, l'aveva già letto.
Il regalo a fumetti più gettonato è stato quindi "Post coitum", la raccolta di vignette che il grandissimo Makkox ha scritto per il Post , edita da Bao Publishing. Non so ancora se è piaciuto, ma mi sento di andare sul sicuro: Makkox è senza dubbio il miglior "giovane" (si fa per dire) autore italiano di satira, e non solo. Leggere anche il suo "Ladolescenza" per credere.
Altri regali a fumetti che ho fatto ultimamente tanto per mischiare comics e rock'n'roll sono stati il classico "Odio!" di Peter Bagge, "Io e il rock" di Joe Sacco e una delle raccolte (a dire il vero più facilmente reperibili in edizione spagnola) di "Love and Rockets" di Jaime Hernandez con protagoniste Maggie e Hopey, di cui sono segretamente innamorato da anni. Un giorno troverò il coraggio di dichiararmi.
Prossimamente, quando ne avrò l'occasione e quando troverò una persona che VERAMENTE se lo merita, regalerò l'integrale di Bone, MILLETRECENTO PAGINE di gioia assoluta che io ho in inglese ma che è da poco uscita per i tipi di Bao (sempre loro, che il dio dei fumetti li abbia in gloria).

Ci è scappato naturalmente anche qualche regalino per me. Innanzi tutto la riedizione in volume delle avventure vissute da Max Fridman durante la guerra civile spagnola: "No pasarán" di Vittorio Giardino è una gioia per gli occhi, stavolta ancor più apprezzata dal sottoscritto in quanto la magica linea chiara del maestro bolognese riporta indietro di 75 anni la Barcellona in cui vivo, e me con lei.
Poi ho preso il nuovo volume di Craig Thompson, l'autore del fondamentale "Blankets": "Habibi", frutto di ben sette anni di lavoro e a quanto si dice nuovo capolavoro della Settima Arte. Di sicuro a sfogliarne le pagine si resta senza fiato, tanto stupefacente è la fusione di oriente e occidente, vignette e calligrafia araba. Seicento e rotte pagine che prevedo di non facilissima lettura, e che a quanto leggo stanno dividendo la critica. Non vedo l'ora di iniziarlo e di poter dire la mia.
A margine, un applauso a Rizzoli Lizard: le ultime uscite della casa editrice (le due di Giardino e Thompson appena citate, ma anche la riedizione dello stesso "Blankets" e altro ancora: Taniguchi, Marjane Satrapi, Magnus, Tintin...) dimostrano che anche in una grande casa editrice generalista ci può essere passione e rispetto per il fumetto. Tredici anni fa, quando iniziai a lavorare alla mia tesi proprio sul fumetto e finii per entrare proprio in RCS, tutto ciò sembrava una pura utopia. Bravi, e speriamo che duri.

Beautiful losers: 1) Brian Wilson

Mi hanno sempre affascinato le vite complicate di personaggi pubblici. Quante volte si pensa che essere famosi, meglio se ricchi, sia motivo di felicità, e quante volte la vita ci dimostra il contrario. Non parlo naturalmente di personaggi la cui notorietà e ricchezza deriva dal vacuo apparire dei nostri tempi (non di veline, calciatori multimilionari o fabrizicorona, per intenderci). Parlo di vite sofferte di gente di una sensibilità fuori dal comune, artisti, cantanti, ragazzi incapaci di gestire il successo - o la perdita dello stesso - e il dono della creatività. Della vita di Buster Keaton mi ha sempre interessato di più la traiettoria calante: come reagì quando dopo l'avvento del sonoro le case cinematografiche non seppero più che farsene del suo incredibile talento e lui scivolò via via nell'anonimato e nell'alcolismo. Capire cosa provò nel fare un film con Ciccio e Franco forse addirittura di più che non sapere come girò "The General". Per dire.
La storia della musica e, più in generale dell'arte, é piena di persone fragili e, per un motivo o per l'altro, insoddisfatte, troppo orgogliose o incapaci (di gestire fama e successo, di relazione con pubblico e media, di affrontare blocchi creativi, più semplicemente di vivere): potrei citare la celeberrima Amy Winehouse di cui tutti hanno parlato e sparlato, ma preferisco nomi a me più affini quali Elliott Smith, Mark Linkous, Vic Chesnutt e, a ritroso nel tempo, Syd Barrett. Ma in questi giorni, chissà perché, sono ner trip dei Beach Boys quindi inizio parlando di Brian e della famiglia Wilson.

I "Ragazzi da spiaggia" sono associati, nell'immaginario collettivo non soltanto statunitense, al surf: canzoncine vuote che parlano di onde californiare e del loro contorno fatto di belle ragazze e divertimento estivo; e infatti divennero famosi agli inizi degli anni '60 con inni come "Surfin", "Surfin' Safari", "Fun fun fun", "Girls on the Beach" e soprattutto "Surfin USA". Una specie di colonna sonora di un "Baywatch" anni 60, insomma. Peccato che dei giovanissimi componenti del gruppo (i tre fratelli Wilson: Dennis, Carl e Brian, il cugino Mike Love più l'amico di studi Al Jardine: il più anziano aveva 16 anni), il solo Dennis fosse davvero un appassionato e praticante di surf: per gli altri fu solo una maniera di "cavalcare l'onda" commerciale (ops!) e imporsi nelle classifiche americane incarnando lo spirito felice e spensierato del boom economico, anche sotto la soffocante e manesca spinta di papà Wilson, Murray, primo dittatoriale manager del gruppo.
Questa strada stava stretta soprattutto a Brian, che fin da giovanissimo aveva imparato a scrivere canzoni e a costruire quelle armonie vocali che divennero il marchio di fabbrica della band. Leggenda vuole che, una volta ritiratosi dalle scene per dedicarsi all'attività in studio, iniziò una sua personalissima gara coi Beatles (epoca-"Revolver", a.d. 1965) per chi sfornasse l'album migliore del secolo, in un'epoca in cui il formato standard era il singolo e i 33 giri erano solo raccolte di successi infarcite di inutili riempitivi.
Inutile dire chi vinse la gara: a "Revolver", Wilson rispose con l'immortale e fantastico "Pet Sounds" (osteggiato da parte del gruppo, soprattutto da Mike Love che davvero non ci ha mai capito una mazza), ma quando i Fab Four calarono l'asso "Sgt. Pepper's" il cervello di Brian si incartò. Tentò di superarsi, moltiplicando all'ennesima potenza l'utilizzo delle innovative tecniche di registrazione sperimentate con l'album precedente, regalò al pubblico un anticipo sopraffino come "Good Vibrations" e creò un'aspettativa incredibile sull'annunciato album "Smile", ma alla fine il 33 giri fu cancellato. Brandelli ne uscirono (quasi sempre ri-registrati) nelle successive uscite discografiche a cominciare dal quasi omonimo (ma opposto per filosofia: tanto pomposo e stratificato doveva essere l'originale quanto grezzo, quasi lo-fi ante litteram, risultò questo) "Smiley Smile", e i Beach Boys continuarono, via via più mediocri e lontani dai gusti del pubblico, con un apporto creativo sempre più ridotto da parte di Brian.
Eh si perchè quest'ultimo si chiuse sempre più in sè stesso e nel suo abuso di sostanze, prigioniero di un mondo fatto di solitudine, cocaina, alcool, cibo e paranoie; addirittura rimase per quasi tre anni a letto a dedicarsi alle sue fobie, incapace di  rialzarsi, in tutti i significati possibili del termine. Riapparve faticosamente in qualche occasione, anche in concerto, a metà degli anni Settanta, contribuendo ad un paio di discreti album del gruppo (soprattutto "Love You") per poi allontanarsi di nuovo dalla musica e dalla realtà. La distanza tra la musica del gruppo, di nuovo vuota, leggera e poco ispirata, e la sofferenza del loro leader si fece improvvisamente e tragicamente incolmabile.
Fu allora che la famiglia decise di affidarlo alle cure di uno specialista, tale Eugene Landy. Come già aveva fatto con successo pochi anni prima, con metodi poco ortodossi (ossia: isolandolo progressivamente dagli affetti e rimettendolo in piedi, almeno fisicamente, attraverso rigidi programmi di autodisciplina) Landy riuscì a strappare Wilson dall'oblio in cui si era cacciato ma prezzo di una dipendenza crescente da calmanti e psicofarmaci di vario genere e, a detta della famiglia di Wilson, dallo stesso psicoterapeuta. A fine anni 80 Brian appariva infatti totalmente succube di Landy, che trasse anche notevoli vantaggi eonomici dalla rinata attività creativa di Wilson; la vicenda terminò agli inizi degli anni Novanta, con l'interdizione dello psichiatra dall'attività e da ogni rapporto con l'artista.
Vicenda complessa e non facile da giudicare; quel che è certo è che lo sguardo del Brian Wilson degli anni Novanta, segnati dal ritrovato rispetto di critica e pubblico e da una meritata quanto tardiva riappacificazione con sè stesso e col proprio repertorio, è uno sguardo sofferente e vacuo, quasi fosse carico di tutta la sofferenza provata durante gli ultimi 25 anni.
Negli ultimi anni Brian Wilson ha ritrovato parte del tempo perduto, pubblicando album solisti di ottimo spessore ma soprattutto riportando in tour la perfezione di "Pet Sounds" e rimettendo mano al capolavoro perduto "Smile", prima pubblicandolo come disco solista e poi, pochi mesi fa, immettendo per la prima volta sul mercato le sessions di registrazione del 1967. Anche ascoltate ora a più di 40 anni di distanza, queste tracce sono la testimonianza di un astro musicale di prima grandezza, capace di inventarsi letteralmente un genere fatto di melodi e armonie vocali uniche, e di perfezionarlo con tecniche di registrazione assolutamente innovative e fuori dal tempo. Fatto ancora più incredibile se si pensa che Brian Wilson è fin dall'adolescenza praticamente sordo da un orecchio a seguito di - si dice - percosse subite dal padre (ragion per cui la gran parte delle registrazioni del gruppo era in mono).
E' notizia degli ultimi giorni la reunion dei Beach Boys, per un album nuovo e un tour che raggiungerà anche l'Europa nel 2012. Personalmente spero che riuscirò a vederli, anche se Brian sarà il solo fratello Wilson presente sul palco: Dennis il surfista è morto infatti tragicamente nel 1983 dopo anni di vita turbolenta segnata dall'alcool, e un tumore si è portato via Carl nel 1998. Il cugino Mike Love sarà invece purtroppo parte del progetto: il classico caso di chi è stato baciato dal successo senza quasi aver capito perchè e, anzi, avendo spesso boicottato gli slanci creativi di Brian distinguendosi per ottusità e supponenza (vedere l'incredibile discorso fatto in occasione dell'introduzione del gruppo nella R'n'R Hall of Fame, per credere) oltre che per le inguardabili camice.
E i Ragazzi da Spiaggia, nonostante abbiano scritto almeno un paio di capitoli di musica di eccelsa qualità e siano stati protagonisti di una storia a dir poco travagliata, amati e rispettati da generazioni di musicisti, rimarranno sempre scolpiti nell'immaginario collettivo per delle allegre e apparentemente innocue canzonette che parlano di surf, ragazze e divertimento in California.