domenica 9 dicembre 2012

c'è davvero bisogno del Primavera Club?

Non tutti sanno che il festival musicale Primavera Sound, che si svolge a Barcellona l'ultimo weekend (lungo) di maggio, ha un'appendice invernale nominata Primavera Club: tre giorni di concerti in varie locations della città, tendenzialmente lontane tra di loro e non raggiungibili se non con lunga pena e rottura di zebedei. L'anno scorso per vedere Girls, Steve Malkmus & the Jicks e Pop Group dovemmo spostarci di corsa tra la Sala Apolo (al quartiere del Poble Sec) e il Casino de l'Aliança del Poblenou, mezz'oretta di tragitto e un cambio di linea di metro; quest'anno ancora meglio, perchè le sedi principali erano il (bellissimo) Teatro Arteria Paral.lel e il Sant Jordi Club, situato nientepopodimeno che al Montjuïc e raggiungibile da plaça d'Espanya con una scarpinata di almeno 15 minuti su per le scale. Dal punto di vista logistico, un disastro. Aggiungiamoci il fatto che, nella migliore tradizione del Primavera, il primo giorno bisogna scambiare il biglietto acquistato online con un braccialetto molto fashion da tenere al braccio per i tre giorni del festival, e che per fare questo cambio si è costretti a una coda assurdamente lunga in un unico punto della città, e capirete che già si inizia con le palle fracassate ancora prima del primo concerto.
Dal punto di vista musicale quest'anno è stata un'altra delusione. La prevista Cat Power ha dato forfait e non è stata sostituita da artisti di livello, ragion per cui il nome di cartello è risultato essere quel Mark Lanegan Group che avevo visto solo pochi mesi fa. Il resto, personalmente, lo considero un ripiego.
La prima sera erano di scena gli Swans, attesissimi dopo l'ultimo album che ha ricevuto ottime critiche. Io e l'amico Pinux però non eravamo in vena di rumore industrial (e soprattutto di andare fino al Sant Jordi, reduci da influenze di varia entità) per cui ce ne siamo stati buoni buoni al teatro Arteria a vedere i Great Lake Swimmers e i Cats on Fire. entrambi godibili e piacevoli, ma sinceramente prescindibili.
Venerdì ben poca cosa: i Redd Kross (un hard rock classico e ripetitivo) e poi serata autoctona con i sorprendenti e tiratissimi Triángulo de Amor Bizarro, molto ma molto meglio dal vivo che su disco col loro mix di New Order e Jesus and Mary Chain in salsa ispanica. Purtroppo il fisico debilitato ci ha fatto desistere dal concerto de Los Planetas che erano il clou della serata.
Ieri sera cartellone pieno ma personalmente di nessun interesse, fatta eccezione per il buon Mark Lanegan. Concerto da 6,5 in pagella, gruppo un po' troppo heavy per i miei gusti e repertorio con scarsissimi ripescaggi dal passato. E - cosa gravissima - non vendevano neppure l'EP natalizio alla bancarella del merchandising...

In conclusione: c'è davvero bisogno di un Primavera Club? Io ho preso il biglietto in accoppiata con quello del festival di maggio e mi è costato (per differenza) 30 €... Non molto comunque, ma con un cartellone così povero me ne sarei stato forse più volentieri sul divano di casa. Speriamo che non sia di cattivo auspicio per maggio: per ora i soli Blur confermati, non vorrei che la crisi economica e l'aumento dell'IVA facessero presagire tempi di vacche magre. Staremo a vedere, tenendo le dita incrociate.

lunedì 26 novembre 2012

Cranes @ Salamandra 2, 23/11/2012

"Guapaaaa!", grida una persona del non foltissimo pubblico. "Alison guapaaaaa!" aggiunge un altro. Lei, appena uscita sul palco del Salamandra, sorride e si schernisce timida come una ragazzina: "You're too kind", sussurra con la sua voce da bambina.
Lei é Alison Shaw e sul palco al suo fianco ci sono il fratello Jim e altri tre ragazzotti inglesi non più di primo pelo: i Cranes. Li vidi suonare tre volte all'inizio degli anni 90 e della loro carriera, a supporto dei Cure nel loro Wish tour, al Bloom in una nottata di fitta nebbia e sotto il diluvio di Sonoria: era il loro momento di gloria, a cavallo tra il primo album "Wings of Joy", la pubblicazione di "Forever" e il (relativo) successo commerciale di "Loved". Li adoravo, e canzoni come "Far Away", "Shining Road", "Jewel" (meglio l'abrasivo originale che la versione remixata da Robert Smith, "troppo Cure" per i miei gusti), "Reverie" hanno girato per secoli nel mio lettore.
Negli anni successivi li persi di vista e anche loro si persero, tra cambi di formazione e di rotta: una svolta prima acustica (l'insipido "Population 4") poi chiamiamola-ambient-con-tocchi-di-elettronica (leggerete anche "dream pop", mah) dei successivi tre album, tutti di buon livello, l'ultimo dei quali risalente al 2008. Poco a che spartire con il suono del primo periodo del gruppo, un mix originalissimo di industrial, dark, gothic, shoegaze e cose così, e pochissima anche l'esposizione ai media rispetto alle copertine del decennio precedente. Denominatore comune, proprio quella voce da bambina che sa essere dolce e spettrale, soave e angosciante allo stesso tempo.
Per prepararmi al concerto di venerdì scorso mi sono riascoltato tutti i loro album e mi sono ricordato di quanto li amassi e del perché. Le aspettative per questa nuova esperienza dal vivo a distanza di quasi 20 anni dall'ultima erano quindi molto alte, e sono state rispettate in pieno.
Il concerto era presentato (male: pochi manifesti, poca pubblicità, alla fine pochi spettatori forse anche per l'infelice location a l'Hospitalet de Llobregat e lo sciopero dei mezzi: io ho girato mezz'ora per un parcheggio in una zona - diciamo - non delle più chic dei sobborghi della città) come "più di due ore di viaggio lungo tutta la storia musicale del gruppo", e così é stato: pochi i momenti di stanchezza durante due e ore e 10' generosissime, circa 25 canzoni che hanno rappresentato un perfetto bilanciamento tra prima fase sperimentale (diverse canzoni dai primi EP addirittura precedenti al primo album), anni della maturità ("Forever" e "Loved" gli album più saccheggiati) e ultima decade. Molti classici, diverse chicche naturalmente le mie adorate "Adrift" e "Lilies".
La band è apparsa ben rodata nonostante le poche apparizioni pubbliche degli ultimi anni, con Jim Shaw solito fulcro sonoro di una musica che alterna magistralmente passaggi acustici, assoli elettrici assordanti, poche note di piano e percussioni potenti. E lei, Alison, con la sua veste bianca, il fermaglio a forma di fiore a raccogliere gli stessi riccioli di un tempo, gli occhi chiusi e la mano a ondeggiare nell'aria.
Spero davvero che la voglia di suonare che appariva visibile nei componenti del gruppo si possa tradurre presto in nuova musica, 5 anni di silenzio discografico sono troppi anche per gli standard di pigrizia della famiglia Shaw. É tempo di nuove "future songs", insomma, e chissà che queste poche date "celebrative" non possano far nascere un nuovo equilibrio compositivo tra vecchio e nuovo, tra silenzio e rumore, tra i loro vent'anni e i loro quaranta. Che poi sono anche i miei.

Setlist (accurata al 100% gracias a Estanis):

1- Light Song
2 - Submarine
3 - Shining Road
4 - Loved
5 - Pale Blue Sky
6 - Living and Breathing
7 - Inescapable
8 - Dada 331
9 - Beautiful Friend
10 - Here Comes the Snow
11 - Feathers
12 - Wires
13 - Far Away
14 - Clear
15 - Lilies
16 - Adoration
-------
17 - Heaven or Bliss
18 - Joy Lies Within
19 - Fuse
20 - To Be
21 - Reverie
22 - Jewel
23 - Adrift
-------
24 - Tangled Up
25 - Future Song
26 - Everywhere

mercoledì 7 novembre 2012

ZERO FOR PRESIDENT

Un fumetto primo nella classifica di vendite di Amazon, ed è lo splendido "Un polpo alla gola" di Zerocalcare, davanti a Camilleri. Il libro precedente di Zero è al quinto posto.
Che ci sia finalmente speranza per il futuro dell'Italia?

(fonte: la pagina facebook della migliore casa editrice italiana di comics del momento: BAO Publishing. Zero è anche in tour promozionale in giro per l'Italia, e io me lo perdo. Check it out.)

Mavis Staples: good vibrations


Mavis Staples è un monumento della musica nera americana. Prima come parte degli Staple Singers in compagnia del padre Pops e di fratello e sorelle e poi come solista, Mavis é stato uno dei simboli del gospel, del soul, del r'n'b statunitense nel corso degli ultimi sessant'anni, magari non acclamata e universalmente nota come altre Grandi Voci (Aretha Franklin su tutte) ma sicuramente di grande importanza dal punto di vista musicale oltre che protagonista di primo piano nelle lotte per i diritti dei neri americani (gli Staples Singers cantavano prima dei comizi di Martin Luther King, o"Dr. King", come lo chiama lei).
Nel corso degli anni spesso Mavis ha collaborato con personaggi di rilievo della musica nera (Booker T. & the MGs, Curtis Mayfield, Ray Charles) ed é stata corteggiata dai grandi della musica "altra": Dylan, The Band, Los Lobos, Dr. John tra le sue collaborazioni. Io la conobbi a fine anni Ottanta, quando nel pieno del mio periodo Paisley Park, comprai un suo vinile prodotto da Prince dopo la sua partecipazione all'orrendo "Graffiti Bridge". Non chiedetemi come fosse quel disco, secondo Allmusic non così male: non ricordo granché, l'unica cosa che all'epoca mi interessava era che ci fosse di mezzo il Principe di Minneapolis, ma una cosa certamente mi rimase impressa ed era la straordinaria voce della Staples.
Roca, grave, con slanci tangibili di passione e pura gioia, quella stessa voce ha sedotto altri grandi nomi del rock più o meno indipendente: tornata alla ribalta (si fa per dire) con "Have a Little Faith" nel 2004, è stata in seguito messa sotto contratto niente di meno che dall'etichetta Anti- con cui ha sfornato tre album splendidi. Ad inaugurare il filotto l'ottimo "We'll Never Turn Back" prodotto da Ry Cooder: un perfetto mix di tradizione e modernità ribadito dall'album "Live: Hope at the Hideout" registrato a Chicago nella successiva tournée. Con Mavis ormai più che settantenne, a fine 2010 è arrivato infine l'acclamato "You Are Not Alone" prodotto da Jeff Tweedy che per l'occasione ha composto la title track e vincitore del Grammy nella categoria "best Americana album". A detta della stessa Staples la collaborazione con il leader dei Wilco, profondo conoscitore della musica degli Staple Singers, continuerà con l'imminente registrazione di un nuovo album che uscirà nel 2013: si sa, di questi tempi tira più il nome di Tweedy che un carro di buoi.
Domenica sera Mavis Staples ha suonato a Barcellona alla [2] de Apolo nell'ambito del Festival Jazz, ed è stata una gran serata. Supportata dalla stessa band chitarra-basso-batteria-cori con cui ha registrato gli ultimi album, capace di dare senza troppi fronzoli la giusta caratterizzazione sonora tra rock, blues, soul e gospel alla potenza vocale della cantante americana, Mavis ha stupito per il suo repertorio, per la sua voce e per la sua simpatia. "We come this evening to bring you some joy, some inspiration and some good vibrations" sono state le sante parole con cui si è aperto il concerto, e mai frase si è rivelata più esatta: io e la piccola folla accorsa ci siamo trovati via via ad una messa gospel ad Harlem, a raccogliere cotone nei campi del profondo Sud o a una marcia per i diritti civili, e tra nuove canzoni e grandi classici abbiamo vissuto momenti di pura commozione e altri di allegria per la contagiosa simpatia della cantante, capace di stabilire un contatto col pubblico (anche fisico, con molte strette di mano) che raramente mi è capitato di vedere in simili situazioni.
Ho avuto la fortuna di conoscere una persona la cui vita da più di 60 anni è pervasa dalla musica, e che attraverso la musica esprime tutto quello che la vita rappresenta. Un salto indietro nel tempo, alle radici della cultura afroamericana e della musica da cui tutto ha avuto origine, e un impagabile contatto con la speranza e la passione per la vita. Mica poco per un "semplice" concerto. Tweedy o non Tweedy, lunga vita a Mavis Staples.

martedì 6 novembre 2012

C'era una volta: James Ellroy and me

Stiamo guardando. Abbiamo le palpebre spalancate e i bulbi strabuzzati. Orbite orbitanti. Stiamo osservando donne. Vogliamo qualcosa di enorme. I miei personaggi non lo sanno ancora. Men che meno il loro casto creatore. Non sappiamo che stiamo leggendo caratteri. Guardiamo così da poter smettere di guardare. Bramiamo il valore morale di una e una sola donna. La riconosceremo quando La incontreremo. Nel frattempo, guardiamo.

Ho molto amato James Ellroy e i suoi romanzi. Lo scoprii prendendo in prestito "I miei luoghi oscuri" alla biblioteca di Dolo quando vivevo sulla Riviera del Brenta ai bei tempi del servizio civile. Quell'autobiografia cruda, quell'indagine sulla morte della madre e sui tormenti interiori che ne derivarono, quella vita ai margini che fu all'origine della carriera di scrittore, furono illuminanti e mi spinsero a leggere molti suoi romanzi. "L.A. Confidential" (che allora, prima del film con Kim Basinger, aveva ancora il titolo "Los Angeles strettamente riservato"), "White Jazz", soprattutto "Dalia Nera" mi stregarono, e con loro quella prosa secca, asciutta, scorticata che era tutt'uno come le storie narrate nei romanzi. Posso dire che per qualche anno James Ellroy é stato il mio scrittore preferito. Grazie a Ellroy ho scoperto il noir, e con esso McBain, Manchette, Hammett, soprattutto Edward Bunker.
Poi, qualcosa si é rotto. La sua prosa si é fatta troppo secca, troppo asciutta, troppo scorticata: spezzettata e fine a sé stessa. Bunker era il mio nuovo riferimento, e lo é rimasto. La prosa di Ellroy ha via via perso il mio interesse, tra romanzi troppo lunghi e storie troppo brevi. Ho smesso di leggerlo, semplicemente.
Nel mio ultimo viaggio in Italia ho trovato al Libraccio "Caccia alle donne", seguito ideale di quel "I miei luoghi oscuri" da cui era nato tutto: l'ho preso subito sperando di tornare indietro nel tempo, a El Monte con Jean Hilliker e il suo deserto, geografico e interiore, a quel delitto e a quel bambino fotografato pochi minuti dopo la morte di sua madre. Alla passione di quella lettura.
Non é stato così. Può essere che sia cambiato io, che i miei gusti letterari si siano evoluti (o involuti), che quel linguaggio e quei luoghi oscuri che un tempo mi affascinavano ora semplicemente mi annoino. Probabilmente é colpa mia. Ma ho trovato "Caccia alle donne" pretenzioso, inutilmente provocatorio, fastidiosamente autoreferenziale. Peccato, per un attimo ci ho sperato.

domenica 10 giugno 2012

vogliamo ancora parlarne? parliamone! il mio Primavera Sound 2012

È una settimana ormai che mi dico che devo scrivere le mie impressioni sul Primavera Sound a cui ho assistito per la quarta volta. Ho iniziato varie volte a farlo, ma poi mi sono detto che ormai non credo interessi più a nessuno. Sono ancora stanco per il tour de force durato tre giorni (ormai ho un'età), e il sonno non l'ho ancora smaltito, quello è sicuro...
Questa edizione non si presentava sotto i migliori auspici, visti i nomi in cartellone: molte meno "stelle" rispetto agli anni precedenti, un numero impressionante di nomi "di ritorno", un sabato piuttosto deprimente e non solo per il forfait di Björk dell'ultima ora. Se a questo ci aggiungiamo che molti degli artisti che avrei voluto vedere suonavano alla stessa ora su palchi differenti per le scelte decisamente cervellotiche dell'organizzazione, insomma il mio spirito non era dei più positivi. Ma poi si sa come va: arrivano gli amici dall'Italia, ti parte la fregola da festival e diventa un happening, una festa, e il giudizio diventa positivo a prescindere dai nomi di chi hai visto e di chi non sei riuscito a vedere.
Cominciamo da chi non sono riuscito a vedere, appunto: tra le rinunce più dolorose metto i Dirty Three, Marianne Faithfull, gli Afghan Whigs, Rufus Wainwright, i Mazzy Star (di cui mi hanno detto molto male, peraltro) e i Big Star's Third (di cui al contrario ho visto e sentito meraviglie). Insomma, un festival nel festival.
Top 3 dei concerti che ho visto:

1) The Cure. Troppo mainstream per i gusti di molti hipsters schizzinosi? Vecchi? Senza un album realmente buono da 20 anni? Sticazzi: 3 ore di concerto (in un festival!), con una scaletta molto varia che ha bilanciato bene lo spirito pop con quello dark (se così si può dire) e che ha regalato delle chicche davvero inaspettate: "Bananafishbones", "Dressing Up", "Fight" (che non suonavano dal 1987), addirittura "Just One Kiss" (b-side di un singolo del '83-84). Gruppo in formissima, con l'aggiunta di Reeves Gabrels alla chitarra.
2) Yo La Tengo. Salvano il sabato e tutto il festival con un live devastante, di una classe immensa. La mia prima volta dal vivo, spero ne seguano altre.
3) Death In Vegas. Altro gruppo che avevo perso di vista anni fa, e che mi ha stupito con una perfetta miscela di rock ed elettronica, ormai più elettronica che rock. Potentissimi.
Altri che ho visto: i Wilco per la terza volta e seconda in pochi mesi, che mi sono piaciuti moltissimo; Sharon Van Etten, pompatissima negli ultimi mesi dai media e dal mio amico Tommy, non delude; i Franz Ferdinand dal vivo sono sempre molto divertenti (anche se le nuove canzoni presentate in anteprima mi hanno lasciato a dir poco freddo), Girls sempre freschi, stavolta con aggiunta di coriste, anche se forse in un contesto del genere scivolano un po' via (ed è un peccato, perchè "Vomit" resta la canzone dell'anno). Poi Lee Ranaldo con Steve Shelley alla batteria, ovvero la Scuola dell'indie rock, un Baxter Dury che non conoscevo e che mi ha piacevolmente sorpreso, l'assalto sonoro dei Mudhoney che mi sono parsi in gran forma, Other Lives piacevolissimi e Pop Group spaccatimpani nel concerto finale del sabato. Sospendo il giudizio su XX (noiosetti), Spiritualized (ho visto troppo poco per giudicare, anche se sono arrivato in tempo per vedere un incazzato Jason Pierce spaccare l'amplificatore ed andarsene dal palco), Beache House (pompatissimi... mah), Chromatics (interessanti dal vivo, ma dubito ci tornerò su) e Kings of Convenience (impeccabili per quel poco che ho visto, ma non è il mio campo da gioco).
Insomma, bene anche quest'anno anche se. E poi, hai voglia a lamentarti quando vai a prendere una birra e ti trovi di fianco nella coda Mike Mills dei R.E.M., o quando ti trovi per caso ad assistere ad una jam session improvvisata nel giardino di fronte al Fòrum tra Atlas Sound e uno stranito Josh T. Pearson che passava di lì per caso. Cose che solo al Primavera Sound.


Per i più stoici: una selezione di foto fatte durante i tre giorni - di concerti e non solo - le trovate qui




sabato 21 aprile 2012

In occasione del Record Store Day: amarcord 1/Milano

Approfitto dell'occasione del Record Store Day che si celebra oggi per cominciare a fare due chiacchiere sui negozio di dischi in cui ho passato "qualche ora" della mia vita, spiluccando tra i cd o i vinili, tra gli album e i singoli, in cerca tanto della novità quanto della chicca, della rarità introvabile e "d'importazione"... Tutti termini sconosciuti alle generazioni d'oggi, che la musica la trovano in rete senza sforzo e spesso senza pagare un euro.
Voglio iniziare con un amarcord sui negozi milanesi in cui ho trascorso i miei anni belli: quelli della nascita della passione per la musica, dell'esplorazione di questo nuovo mondo. Quando, studente squattrinato, dovevo decidere per quale disco spendere i pochi soldi disponibili e a quali invece rinunciare, quando cercavo la canzone sentita alla radio, di notte, e ne parlavo poi con gli amici la sera scambiando opinioni e suggerimenti.

I primi negozi in cui ho passato ore a cercare vinili (sembra un'altra era geologica, ma davvero quando ero al liceo i cd non erano ancora in commercio...) sono Rasputin, in piazza Cinque Giornate, e Mariposa in piazza Medaglie d'Oro (quest'ultimo aveva una sede anche in Duomo, nella galleria sotterranea della metro: onestamente sono secoli che non passo di lì e non so se ci sia ancora). Il primo, immortalato anche da una mitica scena nel primo film di Antonio Albanese, purtroppo non esiste più, sostituito da uno dei millemila Benetton della città: ricordo le pareti zeppe di vinili, e io che cercavo la costina delle mie prime scoperte discografiche. Quella in cui mi fiondavo direttamente era la parete in fondo a sinistra: ricordo distintamente di averci trovato praticamente l'opera omnia di Lou Reed. I cd, allora merce rara e "di nicchia", erano disposti per lo più al bancone all'ingresso, dove rimasero le novità anche quando il vinile poco a poco scomparve e le pareti si riempirono di cd.
Mariposa era più commerciale, ma teneva molti singoli in formato 12": completai lì la raccolta di "maxisingle" di Prince, zeppi di B-sides stratosferiche, epoca Purple Rain-Sign of the Times.
I Navigli erano l'altra miniera d'oro: il Discomane aveva l'ira di dio di usato, in cd e in vinile, e in sottofondo si poteva ascoltare musica per lo più Seventies e southern rock (d'altronde bastava guardare in faccia i - non simpaticissimi - gestori per non avere sorprese). Il Discomane c'è ancora, sempre con un'aria da scantinato maleodorante e con lo stesso strato di polvere che ricopre tutto, i suoi dischi tenuti maluccio, ma può riservare belle sorprese se si ha la pazienza di cercare. I singoli dei Cramps, tra le altre cose, li ho comprati tutti lì. Poi, naturalmente c'era il Libraccio, nella sua sede storica, c'é ancora e si è ampliato e moltiplicato, che dio l'abbia in gloria.

Ai tempi dell'università aumentò il consumo di musica e scoprii nuove frontiere musicali: i negozi per così dire "mainstream" non mi bastavano più. Il classico giro dell'epoca (noleggio cd di via Soncino a parte) era: da Supporti Fonografici in Porta Ticinese a dare un'occhiata alle novità indie, poi da Psycho a comprare a un prezzo decisamente più abbordabile. Quelli di Psycho avevano l'indubbio vantaggio della simpatia e una discreta offerta di usato; Carlo Villa e i soci di Supporti non brillavano per affabilità ma avevano dalla loro un catalogo decisamente più amplio, soprattutto di chicche d'importazione in anni in cui, ripeto, l'accessibilità woldwide di internet era di là da venire. Psycho si é trasferito da anni dalla sede storica di Molino delle Armi e ora vedo che é in via Zamenhof, dove non sono mai stato ma da dove mi dicono che continua a combattere la battaglia per la buona musica; Supporti ha chiuso i battenti da tempo dopo anni di agonia (ricordo ancora la tristezza che mi prese l'ultima volta che ci entrai, com'era cambiato!) e tentativi mal riusciti di trasformarsi in negozio online, loro che tra i primi avevano iniziato a vendere per posta titoli import. Poi c'era (e c'è) Buscemi: ogni tanto ci andavo quando facevo il pendolare passando da Cadorna, più per comodità che per effettivo piacere. Mai più messo piede da allora: ci sono passato davanti da poco ma non mi ha ispirato l'entrata... Chissà invece se resiste Metropolis, altro paradiso dell'usato, in via Padova dove andavo apposta il sabato mattina lasciando spesso la macchina parcheggiata in qualche modo e rischiando di lasciare in multe quello che risparmiavo comprando usato anzichè nuovo...

Ormai, lo ammetto, compro la gran parte dei cd su internet: tra play.com, amazon.it e affini, la spedizione di una novità dall'Australia costa meno che non andare a comprare in un grande magazzino del centro, anche se non ho mai smesso di bazzicare per negozi come una volta. Quando rientro a Milano un giro alla Fnac di via Torino lo faccio sempre, perché bisogna ammettere che é ben fornita, ha prezzi discreti e spesso ottime offerte. Evitare come la peste invece, Mondadori e sopratutto Ricordi/Feltrinelli. Resta il Libraccio, sempre ottimo per l'usato (soprattutto nel negozio di Vittorio Veneto ma anche in quello di via Arconati, sotto casa dei miei). Sabato scorso ero dalle parti di Porta Genova e sono tornato dopo anni da Rossetti, in via Cesare da Sesto, e davvero sembrava di essere tornati nel 1995: Aaron e suo padre Maurizio sempre a discutere dentro il banco con le loro voci inconfondibili, lo stesso spazio angusto, i libretti dei cd disposti con lo stesso identico criterio di allora: mi sono persino ritrovato a comprare "Sempre più vicini" dei Casino Royale e un album dei Ride, che non ascoltavo da allora. Un salto nel tempo, e il piacere di sempre nel "perdere tempo" a spulciare tra gli scaffali, toccare e sbirciare le note e i credits, ritrovarsi le dita impolverate e il naso che cola per l'allergia, e uscire col sorriso tra le labbra sfogliando il libretto dell'ultimo, preziosissimo acquisto.
Poveri ragazzi d'oggi, é un piacere che nell'epoca del download forse non proveranno mai, e non sanno cosa si sono persi.
Evviva i dischi e chi li vende!

domenica 1 aprile 2012

Lee is free


La Notizia Incredibile di fine 2011 é stata la fine del matrimonio tra Thurston Moore e Kim Gordon: una di quelle cose a cui non si riuscirebbe mai a credere, un po' come il Berlusca in galera, l'aria di Milano senza smog o l'Inter che fa triplete.
E invece.
Che a quella separazione segua anche lo scioglimento dei Sonic Youth ancora non é sicuro, ma ovviamente altamente probabile. Vedremo. Nel frattempo iniziano a vedersi i primi germi dell'attività solistica dei vari membri del gruppo, e finora é un bel sentire: di "Demolished Thought" di Moore (prodotto da Beck) ho accennato infilandolo nella mia top10 del 2011, ora a stupire é il primo vero album di canzoni di Lee Ranaldo, intitolato "Between the Times and the Tides" e appena uscito per i tipi della Matador Records.
Non stupisce che sia un ottimo album, naturalmente. Ed ottimo lo è davvero. Stupisce perchè da uno come Ranaldo, tutto feedback e distorsioni, non ci si aspetterebbe un disco tutto sommato pop come questo (si ascoltino il primo singolo "Off the Wall" e il secondo estratto "Angles", esemplari in tal senso), a tratti remmiano, a tratti beatlesiano, a tratti wilchiano (e Nels Cline dei Wilco ci suona la chitarra, per l'appunto). Un paio di canzoni sono addirittura solo voce e chitarra acustica, e a sentire l'autore questo avrebbe dovuto essere il taglio dell'intero album nelle sue prime intenzioni, prima che intervenissero i suggerimenti degli amici (Bob Bert e Jim O'Rourke tra gli altri) a cambiarne gli arrangiamenti. Ci sono anche sprazzi più classici nella loro "ranaldità", naturalmente ("Xtina as I knew her", forse la mia preferita), e a questo punto sono curioso di vedere la band di Ranaldo (con Steve Shelley alla batteria) suonare al prossimo Primavera Sound.

Sulla scia dell'entusiasmo per l'album solista sono andato a ripescarmi il lavoro di Ranaldo con i Sonic Youth. Nella mia personalissima considerazione Lee sta(va?) ai SY un po' come George Harrison stava ai Beatles, almeno dal punto di vista compositivo e canoro: una o due canzoni per album, oscurato dalla maggiore visibilità della coppia d'oro dell'indie rock Moore/Gordon ma non per questo meno importante nell'economia del gruppo.
Le sue sono sempre state fior di canzoni, rese intriganti e oscure dal suo particolare timbro vocale, e dal suo stile spesso vicino allo spoken word. Ascoltare "Hoarfrost" e "Wish Fulfillment", due tra le mie canzoni preferite in assoluto, per credere.
Per dare un'idea, questo sarebbe l'album composto solo da canzoni del "giovane sonico tranquillo". Un doppio, forse triplo immaginario cd che richiede impegno nell'ascolto, lasciando alla fine le nostre orecchie stremate ma straordinariamente appagate.

- Mote (da "Goo")
- Wish Fulfillment (da "Dirty")
- Eric's Trip (da "Daydream Nation")
- Saucer-like (da "Washing Machine")
- Hoarfrost (da "A Thousand Leaves")
- Hey Joni (da "Daydream Nation")
- Rats (da "Rather Ripped")
- Pipeline/Kill Time (da "Sister")
- Karen Koltrane (da "A Thousand Leaves")
- Paper Cup Exit (da "Sonic Nurse")
- Walking Blue (da "The Eternal")
- Skip Tracer (da "Washing Machine")
- Rain King (da "Daydream Nation")
- In the Kingdom #19 (da "EVOL")
NYC Ghosts & Flowers (da "NYC Ghosts and Flowers")
- What We Know (da "The Eternal")
- Genetic (outtake da "Dirty")
- Karen Revisited (da "Murray St.")
- Wish Fulfillment (versione demo, da "Dirty" deluxe edition)

"Between the Times and the Tides" si può ascoltare interamente in streaming qui.

mercoledì 21 marzo 2012

tindersticks @ Casino de l'Aliança del Poblenou


Che concerto meraviglioso! Senz'altro all'altezza del primo decennio del gruppo, quello con la formazione originale. A quanto pare i "nuovi" Tindersticks hanno trovato quell'equilibrio che cercavano da tempo, oltre che su disco (l'ultimo "The Something Rain") anche dal vivo. Il fatto di suonare per la prima volta senza archi, loro che nel violino di Dickon Hinchliffe avevano il loro marchio di fabbrica e che spesso si accompagnavano dal vivo con intere orchestre (si senta il magnifico "Live at Bloomsbury Theatre" del 1996 per credere) non solo non é stato un trauma, ma anzi é parso un'occasione di vera rinascita. Se nelle due precedenti tournées infatti, un violoncellista aveva - per così dire - fatto le veci del dipartito Dickon, ora le parti di violino sono state sostituite a volte dalla chitarra di Neil Fraser (tornato protagonista), a volte dal sax del grandissimo Terry Edwards, a volte da entrambi insieme. Il risultato é a mio avviso entusiasmante, tanto che davvero degli archi non se n'é sentita la mancanza. Anche i due "nuovi" innesti, Dan McKinna al basso e Earl Havin alla batteria, si sono integrati alla perfezione nel gruppo contribuendo a dare nuova personalità all'insieme. Ripeto, per la prima volta non ho rimpianto la vecchia formazione del gruppo.

Interessante la scaletta molto incentrata sulle canzoni del nuovo album, con scelte peculiari per quanto riguarda i "recuperi" dal passato. Solo una canzone del primo album, addirittura "Blood"! e in apertura!, una del secondo. Quasi nessuna delle canzoni che ci si aspettano nemmeno dagli album successivi, totalmente ignorati gli ultimi due dischi. Clou della serata, con relativa ovazione del pubblico, "Chocolate" e "Frozen". Io, felicissimo per "Cherry Blossom". In generale, un inizio soft con le prime quattro canzoni lente e, via via, più spazio al ritmo e al rumore ("4:48 Psychosis"!). Stuart Staples in ottima forma, perfino sorridente a tratti, e David Boulter solito epicentro musicale del gruppo.

Ecco i dettagli:
blood
if you are looking for a way out
dick's slow song
chocolate
show me everything
this fire of autumn
don't ever get tired
i know that loving
a night so still
slippin' shoes
frozen
come inside
-
4:48 psychosis
cherry blossoms
-
medicine
goodbye joe
Segnalo che si può vedere l'intero concerto di Parigi del 5 marzo, con identica scaletta, a questo link.

lunedì 19 marzo 2012

un altro settantenne di lusso: John Cale

Una settimana esatta dopo il suo vecchio compagno di scorribande nei Velvet Underground, il 9 marzo scorso anche John Cale ha compiuto settant'anni. Martedì prossimo suonerà qui a Barcellona ma, per una delirante sovrabbondanza di offerta concertistica, non andrò a vederlo. Se non faccio male i conti sarebbe stato il mio settimo concerto senza contare la reunion dei Velvet del '93, ma è comunque una gran pena per me non andare perchè nonostante il tempo che passa la mia passione per lui non accenna a diminuire.
Di John Cale ho già scritto tempo fa e non voglio ripetermi; nel frattempo lui si è tinto i capelli di rosa, ha ricevuto medaglie dal principe Carlo e sta portando in giro per l'Europa le canzoni del suo ultimo EP pubblicato da poco; tra qualche mese dovrebbe uscire anche un nuovo album per l'etichetta indipendente Domino. A giudicare dalla scaletta delle recenti date del tour mi perderò un gran bel concerto.
Mi guardo in giro e davvero non vedo nessuno all'orizzonte che abbia anche solo una piccola parte del talento visionario di Cale. Nessuno.

Ed è sempre lui a suonare la miglior versione possibile di "Venus in Furs". Sorry Lou.




lunedì 12 marzo 2012

Addio, Emmegipì

Fine settimana luttuoso per gli appassionati di fumetti.
Sabato ci ha lasciato Jean Giraud, in arte Gir ma sopratutto Moebius, un Maestro indiscusso della "settima arte" che io ho sempre apprezzato di più come illustratore di "Bluebarry" che non come ideatore dei mondi futuribili e fantastici che l'hanno reso famoso in tutto il mondo. Questione di fondo: mi hanno sempre appassionato molto le storie del west e dei Nativi Americani, molto meno quelle di fantascienza.
Ieri invece se n'é andata una figura meno nota al grande pubblico, della cui morte si parlerà molto meno, ma che a mio avviso ha lasciato una traccia importantissima nell'editoria italiana, in particolare nel campo dei fumetti: Maria Grazia Perini.

Entrata nello staff della casa editrice di Andrea Corno a soli 18 anni nel 1968, MGP fu capo redattore della rivista "Eureka" fondata da Luciano Secchi di cui divenne anni dopo anche direttore responsabile, partecipando così in maniera importante alla diffusione di strisce americane e italiane come "Andy Capp" (di cui curò la traduzione) e "Sturmtruppen". Per l'Editoriale Corno fu anche curatrice delle prime testate italiane dei supereroi Marvel, occupandosi di coordinamento editoriale, traduzioni e della mitica pagina della posta dei vari "Uomo Ragno", "Fantastici Quattro", "Thor" e compagnia. Il mio principale ricordo di MGP é proprio legato alla posta dei lettori: una pagina in cui, rispondendo a domande spesso naif di un'orda di ragazzini, faceva emergere tutta la sua competenza, la sua ironia, persino la sua passione civile. Per me e per molti altri che all'epoca arrivavamo si e no ai 10 anni, lo stupore e la meraviglia che provavamo leggendo le storie di Stan Lee, Jack Kirby, John Romita, Gene Colan, continuavano senza soluzione di continuità in quelle paginette di domande e risposte in cui MGP era la vera padrona di casa, con uno stile inconfondibile che ricordo benissimo ancora oggi, a 30 anni di distanza.
Fu anche una delle prime a far paura ai bambini, dirigendo collane come "Il Corriere della Paura". Passò poi alla Rizzoli per "Snoopy" e il "Corrierino dei Piccoli" e fu lì che la persi di vista.
Scopro ora, girando sul web, che era lei la padrona del cane e della cavia a cui si ispirarono Magnus&Bunker per il Cirano e la Squitty: a pensarci bene, non poteva che essere così.

Grazie di tutto, Emmegipì, e buon viaggio.


domenica 4 marzo 2012

madeleines inaspettate

Ho letto della morte di Lucio Dalla venerdì sugli schermi dell'aeroporto di Linate, dove ero appena atterrato. La prima reazione è stata un "oh cavolo!" spontaneo, poi sono andato a casa mia dove i miei mi aspettavano per pranzo: non lo sapevano ancora e, a giudicare dai loro sguardi quando gliel'ho detto, lo stesso "oh cavolo!" l'hanno pensato anche loro. Uno stupore dato dal fatto che Dalla era una di quelle persone familiari, bonarie, da sempre presenti nelle nostre vite come se lo si conoscesse personalmente: buffo, sgraziato, simpatico (l'aggettivo forse più ab-usato in questi giorni), il divo della porta accanto, uno di quelli che si crede siano immortali, che c'è sempre stato e sempre ci sarà. Uno a cui andare a stringere la mano per strada: per ringraziarlo di essere così, di non prendersi troppo sul serio, di portare quel ridicolo parrucchino di Cesare Ragazzi come se fosse la cosa più normale del mondo. Uno che quando muore, soprattutto così a tradimento, ti vien da pensare proprio "oh cavolo!": insomma, non si fa così! come un bambino che capisce la morte per la prima volta, come dire "se muore lui, allora si muore davvero a questo mondo!" (Mi capitò lo stesso quando morì Lux Interior dei Cramps, guarda l'ironia della vita: un altro di cui non avevo mai considerato l'eventualità della morte. Lux e Lucio: roba da matti. Stesso colore di capelli, tra l'altro: sempre più inquietante, meglio che la pianti qui prima di trovare altri insostenibili parallelismi, vorrei dormire sereno stanotte).

Da quando ho iniziato ad appassionarmi di musica non ho mai considerato musicalmente Lucio Dalla: non per snobismo, credo semplicemente perchè da allora non ha scritto e cantato praticamente nulla di musicalmente rilevante. Andando indietro nel tempo coi ricordi, rivedo una cassetta (una doppia cassetta, per la precisione) che i miei avevano comprato e che all'epoca girò moltissimo sul mangiacassette di casa: era "DallAmerCaruso", registrata dal vivo in America (appunto) e con unico inedito la celeberrima "Caruso" (appunto). Sono andato a cercarne l'anno di pubblicazione: era il 1986, avevo 14 anni. Stando a "Ondarock" e ad altri siti, praticamente l'ultima cosa davvero rilevante scritta da Dalla che era già nella fase calante della sua ispirazione. Di quel live ricordo molti suoi successi, che in questi giorni di commozione generale ho riascoltato con piacere: sono onesto, non so se per la qualità della musica (comunque lontana dalle mie corde musicali) o per una sorta di effetto-madeleine che mi ha riportato ad un periodo felice della mia vita. L'unico disco con dentro Dalla che ho comprato in vita mia fu "Banana Republic", non tanto per Dalla quanto per De Gregori di cui ero fan a fine anni '80.

In particolare mi sono sempre piaciuti alcuni suoi testi, ricercati, profondi, buffi, diversi; con frasi spesso difficilmente decifrabili ma che mi hanno sempre fatto sorridere per la loro stralunata eccentricità. Leggersi ad esempio "Come è profondo il mare" per credere:


Siamo noi, siamo in tanti 
Ci nascondiamo di notte 
Per paura degli automobilisti 
Dei linotipisti 

eccetera eccetera. 
I linotipisti! E pensare che era il suo primo testo autografo, dopo il sodalizio con Roversi degli anni precedenti...
Dopo averla letta ascoltiamola anche, perché è proprio una grande canzone.

PS. Questo post appartiene alla serie "Chi sono io per essere l'unico italiano a non aver detto la sua su Lucio Dalla? Il figlio della serva?" (sottotitolo: "Però sicuro che il paragone con Lux Interior lo trovate solo qui!")

venerdì 2 marzo 2012

i 70 anni di Lou Reed

Oggi Louis Allen Reed compie 70 anni.
Dimentichiamoci per un attimo dell'ultimo insopportabile album registrato con quei tamarri dei Metallica; dimentichiamoci di molto altro che ha combinato nell'ultimo quindicennio (le pippe mentali con la Laurie, il tai-chi, la sua linea di occhiali ribaltabili, poca musica e quasi tutta supponente e inascoltabile, di buono forse solo la tournée di "Berlin"); dimentichiamoci come ha trattato i suoi migliori collaboratori, Robert Quine e John Cale su tutti; dimentichiamoci quell'atteggiamento da "io sono Lou Reed e faccio quel cazzo che mi pare" che spesso si è tradotto in "se voglio rovinare le mie canzoni lo faccio e basta" (eccome se lo ha fatto, più di qualche volta).
Dimentichiamocene, e prostriamoci in un lungo e rispettoso inchino a quest'uomo che è l'incarnazione della Musica, del Punk, dell'Hard Rock, dell'Underground, dell'Avanguardia, della Poesia, della Pop Art, di New York.
Grazie di tutto, vecchio Lou.

Grazie per i Velvet Underground, innanzi tutto: per il sottoscritto, la scoperta di un Nuovo Mondo tanto quanto andare a sbattere contro San Salvador lo fu per Cristoforo Colombo.
Grazie per "Transformer", per "Berlin", per "Coney Island Baby"; moltissime grazie per "Street Hassle".
Grazie per essere sceso negli inferi e averceli raccontati; grazie soprattutto per aver deciso di tornare a vivere, e di averci raccontato anche quello.
Grazie per avermi fatto conoscere, da lontano, le commistioni possibili tra rock, arte, cinema, poesia, vita.
Grazie per avermi fatto incontrare Andy, Ondine, Holly, Candy Darling, Little Joe, Sugar Plum Fairy, le ragazze di Chelsea, Rachel, Romeo Rodriguez e Juliet Bell.
Grazie per "The Blue Mask", per "Ecstasy" e per Take No Prisoners"; moltissime grazie per "New York".
Grazie per tutto quel che c'è "tra il pensiero e l'espressione".
Grazie per aver scritto "Dime Store Mistery" su misura per i tamburi di Moe Tucker.
Grazie per avermi fatto amare il rumore e per averci messo dentro così tante storie, soprattutto la tua.

Grazie di tutto, vecchio Lou, e buon compleanno.

giovedì 1 marzo 2012

I New Order, con trent'anni di ritardo

Periodicamente mi capita di scoprire inaspettati tesori musicali del passato, sempre ignorati o mai approfonditi, ed entrare con decenni di ritardo in uno dei miei soliti e proverbiali tunnel.
Nel 2010, complice il Primavera Sound, rimasi folgorato dai Fall, che pure già conoscicchiavo fin dai Novanta, e mi appropriai di tutta la loro sterminata discografia in pochi mesi. Quest'anno é la volta dei New Order, gruppo da me sempre evitato e per fortuna del mio portafogli autore solo di pochi album, tutti peraltro reperibili a prezzi stracciati.
I New Order dominarono le classifiche in lungo e in largo per tutti gli anni 80 infilando una serie impressionante di singoli consecutivi al primo posto delle classifiche indie inglesi, tra cui "Blue Monday", il 12" più venduto della storia della musica contemporanea. Il dominio non era limitato al rock cosiddetto alternativo, new wave, indipendente o vattelapesca, ma si estendeva - ohibò! - all'ambito dei club, della musica elettronica, in una parola(ccia) dance. "Dance", per uno musicalmente snob come il sottoscritto che avrà messo piede (trascinato) in discoteca si e no 5 dimenticabilissime volte in vita sua, é sempre stata una parola da pronunciare il meno possibile, un'idea da evitare come la peste. (Salvo poi adorare gruppi come i Primal Scream, che della fusione tra musica indie rock e ambiente da club hanno fatto la loro bandiera. Lo so, son strano).


Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris, per i quattro gatti che non lo sapessero, prima di diventare i New Order (con l'aggiunta di Gillian Gilbert, compagna del batterista), erano i 3/4 di un altro gruppo che ha fatto la storia del post punk inglese: quei Joy Division che, oltre che per la musica dei loro soli due album di studio incisi tra il 1978 e il 1980, vengono ricordati soprattutto per il carisma e la tragica fine del loro leader, Ian Curtis. Ma i tre non erano semplici comprimari, essendo coautori di tutte le canzoni insieme a Curtis; la stoffa c'era già insomma. Così, smaltite rabbia e dolore per la perdita con un paio di singoli e un album di transizione ("Movement", ancora pesantemente - e comprensibilmente - legato alle sonorità Joy Division) i Nostri decisero di mettersi a frequentare i club di NYC e di aprirne uno tutto loro a Manchester: l'Hacienda. Da lì in poi le sonorità iniziarono a fondere sempre più new wave ed elettronica, i ritmi diventarono più ballabili e le tastiere tolsero progressivamente spazio alle chitarre. Il basso inconfondibile di Hook, quello invece resterà sempre in primo piano, vero marchio di fabbrica del gruppo.
Ispirati tra gli altri da gruppi come i Kraftwerk, sfornarono una sequenza di album splendidi e innovativi (da "Power Corruption & Lies" del 1983, il mio preferito, almeno fino a "Technique" del 1989, passando per "Low-Life" e "Brotherhood") e soprattutto una sfilza di singoli mozzafiato, mai inseriti negli album (ma raccolti nel doppio "Substance" del 1987) e sempre in cima alle classifiche, guadagnandosi il rispetto sia del mondo "indie" sia i soldoni di quello mainstream.
Gruppo interessante e peculiare anche nelle scelte di immagine. Con l'unica eccezione di "Low-Life", non apparvero mai sulle copertine, sempre affidate allo studio di Peter Saville, già responsabile delle cover dei Joy Division; raramente rilasciarono interviste tenendo una posizione decisamente low profile e, se vogliamo, sottilmente anticommerciale. Lo stesso Sumner, a cui toccò la parte del cantante dopo la dipartita di Stewart, non si può certo definire il frontman del gruppo; anzi con il suo timbro esile e timido pare scegliere la penombra piuttosto che la luce dei riflettori. Gruppo senza leader quindi, quasi a voler lasciare questa parte al vecchio amico Ian anche dopo la sua morte e il cambio di ragione sociale.
A partire dai Novanta, tra temporanei scioglimenti, dimenticabili progetti paralleli e album trascurabili (valido il solo "Get Ready", decisamente più chitarristico, non altrettanto "Republic" né l'ultimo "Waiting for the Sirens to Call"), dei New Order é rimasto poco se non la fama e il rispetto dei molti seguaci. Quello che era stato un mix innovativo è spesso divenuto musica banalotta e senza ispirazione, fatta eccezione per qualche sporadico guizzo ("Crystal", ad esempio). Come ogni gruppo di lungo corso che si rispetti non si sono fatti mancare nemmeno la triste fine fatta di liti a distanza sui giornali (tra Hook e Sumner in questo caso) e mezze reunion (senza Hooky, appunto) fatte per sfruttare il nome e tirare avanti la carretta. I tre superstiti sono in tour e già si sa che suoneranno al concerto di chiusura delle Olimpiadi di Londra 2012. Amen.
Comunque, sarà la maturità del quarantenne, una ritrovata apertura mentale, la riscoperta tardiva di quegli anni Ottanta tanto vituperati o magari un inizio di rincoglionimento senile (il dubbio mi resta, lo confesso), fatto sta che ora mi piazzo in cuffia "True Faith", "State of the Nation", "Subculture" o "Age of Consent" e nonostante i tastieroni mi piacciono, accidenti se mi piacciono.
E a ben pensarci, già in una delle canzoni più note dei Joy Division Ian cantava "Dance, dance, dance...". Chissà che in qualche modo non fosse già tutto scritto nel destino.