mercoledì 21 marzo 2012

tindersticks @ Casino de l'Aliança del Poblenou


Che concerto meraviglioso! Senz'altro all'altezza del primo decennio del gruppo, quello con la formazione originale. A quanto pare i "nuovi" Tindersticks hanno trovato quell'equilibrio che cercavano da tempo, oltre che su disco (l'ultimo "The Something Rain") anche dal vivo. Il fatto di suonare per la prima volta senza archi, loro che nel violino di Dickon Hinchliffe avevano il loro marchio di fabbrica e che spesso si accompagnavano dal vivo con intere orchestre (si senta il magnifico "Live at Bloomsbury Theatre" del 1996 per credere) non solo non é stato un trauma, ma anzi é parso un'occasione di vera rinascita. Se nelle due precedenti tournées infatti, un violoncellista aveva - per così dire - fatto le veci del dipartito Dickon, ora le parti di violino sono state sostituite a volte dalla chitarra di Neil Fraser (tornato protagonista), a volte dal sax del grandissimo Terry Edwards, a volte da entrambi insieme. Il risultato é a mio avviso entusiasmante, tanto che davvero degli archi non se n'é sentita la mancanza. Anche i due "nuovi" innesti, Dan McKinna al basso e Earl Havin alla batteria, si sono integrati alla perfezione nel gruppo contribuendo a dare nuova personalità all'insieme. Ripeto, per la prima volta non ho rimpianto la vecchia formazione del gruppo.

Interessante la scaletta molto incentrata sulle canzoni del nuovo album, con scelte peculiari per quanto riguarda i "recuperi" dal passato. Solo una canzone del primo album, addirittura "Blood"! e in apertura!, una del secondo. Quasi nessuna delle canzoni che ci si aspettano nemmeno dagli album successivi, totalmente ignorati gli ultimi due dischi. Clou della serata, con relativa ovazione del pubblico, "Chocolate" e "Frozen". Io, felicissimo per "Cherry Blossom". In generale, un inizio soft con le prime quattro canzoni lente e, via via, più spazio al ritmo e al rumore ("4:48 Psychosis"!). Stuart Staples in ottima forma, perfino sorridente a tratti, e David Boulter solito epicentro musicale del gruppo.

Ecco i dettagli:
blood
if you are looking for a way out
dick's slow song
chocolate
show me everything
this fire of autumn
don't ever get tired
i know that loving
a night so still
slippin' shoes
frozen
come inside
-
4:48 psychosis
cherry blossoms
-
medicine
goodbye joe
Segnalo che si può vedere l'intero concerto di Parigi del 5 marzo, con identica scaletta, a questo link.

lunedì 19 marzo 2012

un altro settantenne di lusso: John Cale

Una settimana esatta dopo il suo vecchio compagno di scorribande nei Velvet Underground, il 9 marzo scorso anche John Cale ha compiuto settant'anni. Martedì prossimo suonerà qui a Barcellona ma, per una delirante sovrabbondanza di offerta concertistica, non andrò a vederlo. Se non faccio male i conti sarebbe stato il mio settimo concerto senza contare la reunion dei Velvet del '93, ma è comunque una gran pena per me non andare perchè nonostante il tempo che passa la mia passione per lui non accenna a diminuire.
Di John Cale ho già scritto tempo fa e non voglio ripetermi; nel frattempo lui si è tinto i capelli di rosa, ha ricevuto medaglie dal principe Carlo e sta portando in giro per l'Europa le canzoni del suo ultimo EP pubblicato da poco; tra qualche mese dovrebbe uscire anche un nuovo album per l'etichetta indipendente Domino. A giudicare dalla scaletta delle recenti date del tour mi perderò un gran bel concerto.
Mi guardo in giro e davvero non vedo nessuno all'orizzonte che abbia anche solo una piccola parte del talento visionario di Cale. Nessuno.

Ed è sempre lui a suonare la miglior versione possibile di "Venus in Furs". Sorry Lou.




lunedì 12 marzo 2012

Addio, Emmegipì

Fine settimana luttuoso per gli appassionati di fumetti.
Sabato ci ha lasciato Jean Giraud, in arte Gir ma sopratutto Moebius, un Maestro indiscusso della "settima arte" che io ho sempre apprezzato di più come illustratore di "Bluebarry" che non come ideatore dei mondi futuribili e fantastici che l'hanno reso famoso in tutto il mondo. Questione di fondo: mi hanno sempre appassionato molto le storie del west e dei Nativi Americani, molto meno quelle di fantascienza.
Ieri invece se n'é andata una figura meno nota al grande pubblico, della cui morte si parlerà molto meno, ma che a mio avviso ha lasciato una traccia importantissima nell'editoria italiana, in particolare nel campo dei fumetti: Maria Grazia Perini.

Entrata nello staff della casa editrice di Andrea Corno a soli 18 anni nel 1968, MGP fu capo redattore della rivista "Eureka" fondata da Luciano Secchi di cui divenne anni dopo anche direttore responsabile, partecipando così in maniera importante alla diffusione di strisce americane e italiane come "Andy Capp" (di cui curò la traduzione) e "Sturmtruppen". Per l'Editoriale Corno fu anche curatrice delle prime testate italiane dei supereroi Marvel, occupandosi di coordinamento editoriale, traduzioni e della mitica pagina della posta dei vari "Uomo Ragno", "Fantastici Quattro", "Thor" e compagnia. Il mio principale ricordo di MGP é proprio legato alla posta dei lettori: una pagina in cui, rispondendo a domande spesso naif di un'orda di ragazzini, faceva emergere tutta la sua competenza, la sua ironia, persino la sua passione civile. Per me e per molti altri che all'epoca arrivavamo si e no ai 10 anni, lo stupore e la meraviglia che provavamo leggendo le storie di Stan Lee, Jack Kirby, John Romita, Gene Colan, continuavano senza soluzione di continuità in quelle paginette di domande e risposte in cui MGP era la vera padrona di casa, con uno stile inconfondibile che ricordo benissimo ancora oggi, a 30 anni di distanza.
Fu anche una delle prime a far paura ai bambini, dirigendo collane come "Il Corriere della Paura". Passò poi alla Rizzoli per "Snoopy" e il "Corrierino dei Piccoli" e fu lì che la persi di vista.
Scopro ora, girando sul web, che era lei la padrona del cane e della cavia a cui si ispirarono Magnus&Bunker per il Cirano e la Squitty: a pensarci bene, non poteva che essere così.

Grazie di tutto, Emmegipì, e buon viaggio.


domenica 4 marzo 2012

madeleines inaspettate

Ho letto della morte di Lucio Dalla venerdì sugli schermi dell'aeroporto di Linate, dove ero appena atterrato. La prima reazione è stata un "oh cavolo!" spontaneo, poi sono andato a casa mia dove i miei mi aspettavano per pranzo: non lo sapevano ancora e, a giudicare dai loro sguardi quando gliel'ho detto, lo stesso "oh cavolo!" l'hanno pensato anche loro. Uno stupore dato dal fatto che Dalla era una di quelle persone familiari, bonarie, da sempre presenti nelle nostre vite come se lo si conoscesse personalmente: buffo, sgraziato, simpatico (l'aggettivo forse più ab-usato in questi giorni), il divo della porta accanto, uno di quelli che si crede siano immortali, che c'è sempre stato e sempre ci sarà. Uno a cui andare a stringere la mano per strada: per ringraziarlo di essere così, di non prendersi troppo sul serio, di portare quel ridicolo parrucchino di Cesare Ragazzi come se fosse la cosa più normale del mondo. Uno che quando muore, soprattutto così a tradimento, ti vien da pensare proprio "oh cavolo!": insomma, non si fa così! come un bambino che capisce la morte per la prima volta, come dire "se muore lui, allora si muore davvero a questo mondo!" (Mi capitò lo stesso quando morì Lux Interior dei Cramps, guarda l'ironia della vita: un altro di cui non avevo mai considerato l'eventualità della morte. Lux e Lucio: roba da matti. Stesso colore di capelli, tra l'altro: sempre più inquietante, meglio che la pianti qui prima di trovare altri insostenibili parallelismi, vorrei dormire sereno stanotte).

Da quando ho iniziato ad appassionarmi di musica non ho mai considerato musicalmente Lucio Dalla: non per snobismo, credo semplicemente perchè da allora non ha scritto e cantato praticamente nulla di musicalmente rilevante. Andando indietro nel tempo coi ricordi, rivedo una cassetta (una doppia cassetta, per la precisione) che i miei avevano comprato e che all'epoca girò moltissimo sul mangiacassette di casa: era "DallAmerCaruso", registrata dal vivo in America (appunto) e con unico inedito la celeberrima "Caruso" (appunto). Sono andato a cercarne l'anno di pubblicazione: era il 1986, avevo 14 anni. Stando a "Ondarock" e ad altri siti, praticamente l'ultima cosa davvero rilevante scritta da Dalla che era già nella fase calante della sua ispirazione. Di quel live ricordo molti suoi successi, che in questi giorni di commozione generale ho riascoltato con piacere: sono onesto, non so se per la qualità della musica (comunque lontana dalle mie corde musicali) o per una sorta di effetto-madeleine che mi ha riportato ad un periodo felice della mia vita. L'unico disco con dentro Dalla che ho comprato in vita mia fu "Banana Republic", non tanto per Dalla quanto per De Gregori di cui ero fan a fine anni '80.

In particolare mi sono sempre piaciuti alcuni suoi testi, ricercati, profondi, buffi, diversi; con frasi spesso difficilmente decifrabili ma che mi hanno sempre fatto sorridere per la loro stralunata eccentricità. Leggersi ad esempio "Come è profondo il mare" per credere:


Siamo noi, siamo in tanti 
Ci nascondiamo di notte 
Per paura degli automobilisti 
Dei linotipisti 

eccetera eccetera. 
I linotipisti! E pensare che era il suo primo testo autografo, dopo il sodalizio con Roversi degli anni precedenti...
Dopo averla letta ascoltiamola anche, perché è proprio una grande canzone.

PS. Questo post appartiene alla serie "Chi sono io per essere l'unico italiano a non aver detto la sua su Lucio Dalla? Il figlio della serva?" (sottotitolo: "Però sicuro che il paragone con Lux Interior lo trovate solo qui!")

venerdì 2 marzo 2012

i 70 anni di Lou Reed

Oggi Louis Allen Reed compie 70 anni.
Dimentichiamoci per un attimo dell'ultimo insopportabile album registrato con quei tamarri dei Metallica; dimentichiamoci di molto altro che ha combinato nell'ultimo quindicennio (le pippe mentali con la Laurie, il tai-chi, la sua linea di occhiali ribaltabili, poca musica e quasi tutta supponente e inascoltabile, di buono forse solo la tournée di "Berlin"); dimentichiamoci come ha trattato i suoi migliori collaboratori, Robert Quine e John Cale su tutti; dimentichiamoci quell'atteggiamento da "io sono Lou Reed e faccio quel cazzo che mi pare" che spesso si è tradotto in "se voglio rovinare le mie canzoni lo faccio e basta" (eccome se lo ha fatto, più di qualche volta).
Dimentichiamocene, e prostriamoci in un lungo e rispettoso inchino a quest'uomo che è l'incarnazione della Musica, del Punk, dell'Hard Rock, dell'Underground, dell'Avanguardia, della Poesia, della Pop Art, di New York.
Grazie di tutto, vecchio Lou.

Grazie per i Velvet Underground, innanzi tutto: per il sottoscritto, la scoperta di un Nuovo Mondo tanto quanto andare a sbattere contro San Salvador lo fu per Cristoforo Colombo.
Grazie per "Transformer", per "Berlin", per "Coney Island Baby"; moltissime grazie per "Street Hassle".
Grazie per essere sceso negli inferi e averceli raccontati; grazie soprattutto per aver deciso di tornare a vivere, e di averci raccontato anche quello.
Grazie per avermi fatto conoscere, da lontano, le commistioni possibili tra rock, arte, cinema, poesia, vita.
Grazie per avermi fatto incontrare Andy, Ondine, Holly, Candy Darling, Little Joe, Sugar Plum Fairy, le ragazze di Chelsea, Rachel, Romeo Rodriguez e Juliet Bell.
Grazie per "The Blue Mask", per "Ecstasy" e per Take No Prisoners"; moltissime grazie per "New York".
Grazie per tutto quel che c'è "tra il pensiero e l'espressione".
Grazie per aver scritto "Dime Store Mistery" su misura per i tamburi di Moe Tucker.
Grazie per avermi fatto amare il rumore e per averci messo dentro così tante storie, soprattutto la tua.

Grazie di tutto, vecchio Lou, e buon compleanno.

giovedì 1 marzo 2012

I New Order, con trent'anni di ritardo

Periodicamente mi capita di scoprire inaspettati tesori musicali del passato, sempre ignorati o mai approfonditi, ed entrare con decenni di ritardo in uno dei miei soliti e proverbiali tunnel.
Nel 2010, complice il Primavera Sound, rimasi folgorato dai Fall, che pure già conoscicchiavo fin dai Novanta, e mi appropriai di tutta la loro sterminata discografia in pochi mesi. Quest'anno é la volta dei New Order, gruppo da me sempre evitato e per fortuna del mio portafogli autore solo di pochi album, tutti peraltro reperibili a prezzi stracciati.
I New Order dominarono le classifiche in lungo e in largo per tutti gli anni 80 infilando una serie impressionante di singoli consecutivi al primo posto delle classifiche indie inglesi, tra cui "Blue Monday", il 12" più venduto della storia della musica contemporanea. Il dominio non era limitato al rock cosiddetto alternativo, new wave, indipendente o vattelapesca, ma si estendeva - ohibò! - all'ambito dei club, della musica elettronica, in una parola(ccia) dance. "Dance", per uno musicalmente snob come il sottoscritto che avrà messo piede (trascinato) in discoteca si e no 5 dimenticabilissime volte in vita sua, é sempre stata una parola da pronunciare il meno possibile, un'idea da evitare come la peste. (Salvo poi adorare gruppi come i Primal Scream, che della fusione tra musica indie rock e ambiente da club hanno fatto la loro bandiera. Lo so, son strano).


Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris, per i quattro gatti che non lo sapessero, prima di diventare i New Order (con l'aggiunta di Gillian Gilbert, compagna del batterista), erano i 3/4 di un altro gruppo che ha fatto la storia del post punk inglese: quei Joy Division che, oltre che per la musica dei loro soli due album di studio incisi tra il 1978 e il 1980, vengono ricordati soprattutto per il carisma e la tragica fine del loro leader, Ian Curtis. Ma i tre non erano semplici comprimari, essendo coautori di tutte le canzoni insieme a Curtis; la stoffa c'era già insomma. Così, smaltite rabbia e dolore per la perdita con un paio di singoli e un album di transizione ("Movement", ancora pesantemente - e comprensibilmente - legato alle sonorità Joy Division) i Nostri decisero di mettersi a frequentare i club di NYC e di aprirne uno tutto loro a Manchester: l'Hacienda. Da lì in poi le sonorità iniziarono a fondere sempre più new wave ed elettronica, i ritmi diventarono più ballabili e le tastiere tolsero progressivamente spazio alle chitarre. Il basso inconfondibile di Hook, quello invece resterà sempre in primo piano, vero marchio di fabbrica del gruppo.
Ispirati tra gli altri da gruppi come i Kraftwerk, sfornarono una sequenza di album splendidi e innovativi (da "Power Corruption & Lies" del 1983, il mio preferito, almeno fino a "Technique" del 1989, passando per "Low-Life" e "Brotherhood") e soprattutto una sfilza di singoli mozzafiato, mai inseriti negli album (ma raccolti nel doppio "Substance" del 1987) e sempre in cima alle classifiche, guadagnandosi il rispetto sia del mondo "indie" sia i soldoni di quello mainstream.
Gruppo interessante e peculiare anche nelle scelte di immagine. Con l'unica eccezione di "Low-Life", non apparvero mai sulle copertine, sempre affidate allo studio di Peter Saville, già responsabile delle cover dei Joy Division; raramente rilasciarono interviste tenendo una posizione decisamente low profile e, se vogliamo, sottilmente anticommerciale. Lo stesso Sumner, a cui toccò la parte del cantante dopo la dipartita di Stewart, non si può certo definire il frontman del gruppo; anzi con il suo timbro esile e timido pare scegliere la penombra piuttosto che la luce dei riflettori. Gruppo senza leader quindi, quasi a voler lasciare questa parte al vecchio amico Ian anche dopo la sua morte e il cambio di ragione sociale.
A partire dai Novanta, tra temporanei scioglimenti, dimenticabili progetti paralleli e album trascurabili (valido il solo "Get Ready", decisamente più chitarristico, non altrettanto "Republic" né l'ultimo "Waiting for the Sirens to Call"), dei New Order é rimasto poco se non la fama e il rispetto dei molti seguaci. Quello che era stato un mix innovativo è spesso divenuto musica banalotta e senza ispirazione, fatta eccezione per qualche sporadico guizzo ("Crystal", ad esempio). Come ogni gruppo di lungo corso che si rispetti non si sono fatti mancare nemmeno la triste fine fatta di liti a distanza sui giornali (tra Hook e Sumner in questo caso) e mezze reunion (senza Hooky, appunto) fatte per sfruttare il nome e tirare avanti la carretta. I tre superstiti sono in tour e già si sa che suoneranno al concerto di chiusura delle Olimpiadi di Londra 2012. Amen.
Comunque, sarà la maturità del quarantenne, una ritrovata apertura mentale, la riscoperta tardiva di quegli anni Ottanta tanto vituperati o magari un inizio di rincoglionimento senile (il dubbio mi resta, lo confesso), fatto sta che ora mi piazzo in cuffia "True Faith", "State of the Nation", "Subculture" o "Age of Consent" e nonostante i tastieroni mi piacciono, accidenti se mi piacciono.
E a ben pensarci, già in una delle canzoni più note dei Joy Division Ian cantava "Dance, dance, dance...". Chissà che in qualche modo non fosse già tutto scritto nel destino.