lunedì 26 novembre 2012

Cranes @ Salamandra 2, 23/11/2012

"Guapaaaa!", grida una persona del non foltissimo pubblico. "Alison guapaaaaa!" aggiunge un altro. Lei, appena uscita sul palco del Salamandra, sorride e si schernisce timida come una ragazzina: "You're too kind", sussurra con la sua voce da bambina.
Lei é Alison Shaw e sul palco al suo fianco ci sono il fratello Jim e altri tre ragazzotti inglesi non più di primo pelo: i Cranes. Li vidi suonare tre volte all'inizio degli anni 90 e della loro carriera, a supporto dei Cure nel loro Wish tour, al Bloom in una nottata di fitta nebbia e sotto il diluvio di Sonoria: era il loro momento di gloria, a cavallo tra il primo album "Wings of Joy", la pubblicazione di "Forever" e il (relativo) successo commerciale di "Loved". Li adoravo, e canzoni come "Far Away", "Shining Road", "Jewel" (meglio l'abrasivo originale che la versione remixata da Robert Smith, "troppo Cure" per i miei gusti), "Reverie" hanno girato per secoli nel mio lettore.
Negli anni successivi li persi di vista e anche loro si persero, tra cambi di formazione e di rotta: una svolta prima acustica (l'insipido "Population 4") poi chiamiamola-ambient-con-tocchi-di-elettronica (leggerete anche "dream pop", mah) dei successivi tre album, tutti di buon livello, l'ultimo dei quali risalente al 2008. Poco a che spartire con il suono del primo periodo del gruppo, un mix originalissimo di industrial, dark, gothic, shoegaze e cose così, e pochissima anche l'esposizione ai media rispetto alle copertine del decennio precedente. Denominatore comune, proprio quella voce da bambina che sa essere dolce e spettrale, soave e angosciante allo stesso tempo.
Per prepararmi al concerto di venerdì scorso mi sono riascoltato tutti i loro album e mi sono ricordato di quanto li amassi e del perché. Le aspettative per questa nuova esperienza dal vivo a distanza di quasi 20 anni dall'ultima erano quindi molto alte, e sono state rispettate in pieno.
Il concerto era presentato (male: pochi manifesti, poca pubblicità, alla fine pochi spettatori forse anche per l'infelice location a l'Hospitalet de Llobregat e lo sciopero dei mezzi: io ho girato mezz'ora per un parcheggio in una zona - diciamo - non delle più chic dei sobborghi della città) come "più di due ore di viaggio lungo tutta la storia musicale del gruppo", e così é stato: pochi i momenti di stanchezza durante due e ore e 10' generosissime, circa 25 canzoni che hanno rappresentato un perfetto bilanciamento tra prima fase sperimentale (diverse canzoni dai primi EP addirittura precedenti al primo album), anni della maturità ("Forever" e "Loved" gli album più saccheggiati) e ultima decade. Molti classici, diverse chicche naturalmente le mie adorate "Adrift" e "Lilies".
La band è apparsa ben rodata nonostante le poche apparizioni pubbliche degli ultimi anni, con Jim Shaw solito fulcro sonoro di una musica che alterna magistralmente passaggi acustici, assoli elettrici assordanti, poche note di piano e percussioni potenti. E lei, Alison, con la sua veste bianca, il fermaglio a forma di fiore a raccogliere gli stessi riccioli di un tempo, gli occhi chiusi e la mano a ondeggiare nell'aria.
Spero davvero che la voglia di suonare che appariva visibile nei componenti del gruppo si possa tradurre presto in nuova musica, 5 anni di silenzio discografico sono troppi anche per gli standard di pigrizia della famiglia Shaw. É tempo di nuove "future songs", insomma, e chissà che queste poche date "celebrative" non possano far nascere un nuovo equilibrio compositivo tra vecchio e nuovo, tra silenzio e rumore, tra i loro vent'anni e i loro quaranta. Che poi sono anche i miei.

Setlist (accurata al 100% gracias a Estanis):

1- Light Song
2 - Submarine
3 - Shining Road
4 - Loved
5 - Pale Blue Sky
6 - Living and Breathing
7 - Inescapable
8 - Dada 331
9 - Beautiful Friend
10 - Here Comes the Snow
11 - Feathers
12 - Wires
13 - Far Away
14 - Clear
15 - Lilies
16 - Adoration
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17 - Heaven or Bliss
18 - Joy Lies Within
19 - Fuse
20 - To Be
21 - Reverie
22 - Jewel
23 - Adrift
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24 - Tangled Up
25 - Future Song
26 - Everywhere

mercoledì 7 novembre 2012

ZERO FOR PRESIDENT

Un fumetto primo nella classifica di vendite di Amazon, ed è lo splendido "Un polpo alla gola" di Zerocalcare, davanti a Camilleri. Il libro precedente di Zero è al quinto posto.
Che ci sia finalmente speranza per il futuro dell'Italia?

(fonte: la pagina facebook della migliore casa editrice italiana di comics del momento: BAO Publishing. Zero è anche in tour promozionale in giro per l'Italia, e io me lo perdo. Check it out.)

Mavis Staples: good vibrations


Mavis Staples è un monumento della musica nera americana. Prima come parte degli Staple Singers in compagnia del padre Pops e di fratello e sorelle e poi come solista, Mavis é stato uno dei simboli del gospel, del soul, del r'n'b statunitense nel corso degli ultimi sessant'anni, magari non acclamata e universalmente nota come altre Grandi Voci (Aretha Franklin su tutte) ma sicuramente di grande importanza dal punto di vista musicale oltre che protagonista di primo piano nelle lotte per i diritti dei neri americani (gli Staples Singers cantavano prima dei comizi di Martin Luther King, o"Dr. King", come lo chiama lei).
Nel corso degli anni spesso Mavis ha collaborato con personaggi di rilievo della musica nera (Booker T. & the MGs, Curtis Mayfield, Ray Charles) ed é stata corteggiata dai grandi della musica "altra": Dylan, The Band, Los Lobos, Dr. John tra le sue collaborazioni. Io la conobbi a fine anni Ottanta, quando nel pieno del mio periodo Paisley Park, comprai un suo vinile prodotto da Prince dopo la sua partecipazione all'orrendo "Graffiti Bridge". Non chiedetemi come fosse quel disco, secondo Allmusic non così male: non ricordo granché, l'unica cosa che all'epoca mi interessava era che ci fosse di mezzo il Principe di Minneapolis, ma una cosa certamente mi rimase impressa ed era la straordinaria voce della Staples.
Roca, grave, con slanci tangibili di passione e pura gioia, quella stessa voce ha sedotto altri grandi nomi del rock più o meno indipendente: tornata alla ribalta (si fa per dire) con "Have a Little Faith" nel 2004, è stata in seguito messa sotto contratto niente di meno che dall'etichetta Anti- con cui ha sfornato tre album splendidi. Ad inaugurare il filotto l'ottimo "We'll Never Turn Back" prodotto da Ry Cooder: un perfetto mix di tradizione e modernità ribadito dall'album "Live: Hope at the Hideout" registrato a Chicago nella successiva tournée. Con Mavis ormai più che settantenne, a fine 2010 è arrivato infine l'acclamato "You Are Not Alone" prodotto da Jeff Tweedy che per l'occasione ha composto la title track e vincitore del Grammy nella categoria "best Americana album". A detta della stessa Staples la collaborazione con il leader dei Wilco, profondo conoscitore della musica degli Staple Singers, continuerà con l'imminente registrazione di un nuovo album che uscirà nel 2013: si sa, di questi tempi tira più il nome di Tweedy che un carro di buoi.
Domenica sera Mavis Staples ha suonato a Barcellona alla [2] de Apolo nell'ambito del Festival Jazz, ed è stata una gran serata. Supportata dalla stessa band chitarra-basso-batteria-cori con cui ha registrato gli ultimi album, capace di dare senza troppi fronzoli la giusta caratterizzazione sonora tra rock, blues, soul e gospel alla potenza vocale della cantante americana, Mavis ha stupito per il suo repertorio, per la sua voce e per la sua simpatia. "We come this evening to bring you some joy, some inspiration and some good vibrations" sono state le sante parole con cui si è aperto il concerto, e mai frase si è rivelata più esatta: io e la piccola folla accorsa ci siamo trovati via via ad una messa gospel ad Harlem, a raccogliere cotone nei campi del profondo Sud o a una marcia per i diritti civili, e tra nuove canzoni e grandi classici abbiamo vissuto momenti di pura commozione e altri di allegria per la contagiosa simpatia della cantante, capace di stabilire un contatto col pubblico (anche fisico, con molte strette di mano) che raramente mi è capitato di vedere in simili situazioni.
Ho avuto la fortuna di conoscere una persona la cui vita da più di 60 anni è pervasa dalla musica, e che attraverso la musica esprime tutto quello che la vita rappresenta. Un salto indietro nel tempo, alle radici della cultura afroamericana e della musica da cui tutto ha avuto origine, e un impagabile contatto con la speranza e la passione per la vita. Mica poco per un "semplice" concerto. Tweedy o non Tweedy, lunga vita a Mavis Staples.

martedì 6 novembre 2012

C'era una volta: James Ellroy and me

Stiamo guardando. Abbiamo le palpebre spalancate e i bulbi strabuzzati. Orbite orbitanti. Stiamo osservando donne. Vogliamo qualcosa di enorme. I miei personaggi non lo sanno ancora. Men che meno il loro casto creatore. Non sappiamo che stiamo leggendo caratteri. Guardiamo così da poter smettere di guardare. Bramiamo il valore morale di una e una sola donna. La riconosceremo quando La incontreremo. Nel frattempo, guardiamo.

Ho molto amato James Ellroy e i suoi romanzi. Lo scoprii prendendo in prestito "I miei luoghi oscuri" alla biblioteca di Dolo quando vivevo sulla Riviera del Brenta ai bei tempi del servizio civile. Quell'autobiografia cruda, quell'indagine sulla morte della madre e sui tormenti interiori che ne derivarono, quella vita ai margini che fu all'origine della carriera di scrittore, furono illuminanti e mi spinsero a leggere molti suoi romanzi. "L.A. Confidential" (che allora, prima del film con Kim Basinger, aveva ancora il titolo "Los Angeles strettamente riservato"), "White Jazz", soprattutto "Dalia Nera" mi stregarono, e con loro quella prosa secca, asciutta, scorticata che era tutt'uno come le storie narrate nei romanzi. Posso dire che per qualche anno James Ellroy é stato il mio scrittore preferito. Grazie a Ellroy ho scoperto il noir, e con esso McBain, Manchette, Hammett, soprattutto Edward Bunker.
Poi, qualcosa si é rotto. La sua prosa si é fatta troppo secca, troppo asciutta, troppo scorticata: spezzettata e fine a sé stessa. Bunker era il mio nuovo riferimento, e lo é rimasto. La prosa di Ellroy ha via via perso il mio interesse, tra romanzi troppo lunghi e storie troppo brevi. Ho smesso di leggerlo, semplicemente.
Nel mio ultimo viaggio in Italia ho trovato al Libraccio "Caccia alle donne", seguito ideale di quel "I miei luoghi oscuri" da cui era nato tutto: l'ho preso subito sperando di tornare indietro nel tempo, a El Monte con Jean Hilliker e il suo deserto, geografico e interiore, a quel delitto e a quel bambino fotografato pochi minuti dopo la morte di sua madre. Alla passione di quella lettura.
Non é stato così. Può essere che sia cambiato io, che i miei gusti letterari si siano evoluti (o involuti), che quel linguaggio e quei luoghi oscuri che un tempo mi affascinavano ora semplicemente mi annoino. Probabilmente é colpa mia. Ma ho trovato "Caccia alle donne" pretenzioso, inutilmente provocatorio, fastidiosamente autoreferenziale. Peccato, per un attimo ci ho sperato.